Intestino: non solo diarrea e stitichezza
Non vogliamo parlare qui solo di diarrea e di stitichezza, problemi già affrontati altrove, ma prendiamo in considerazione un gruppo di patologie intestinali che riguardano da vicino il sistema immunitario.
Non abbiamo la pretesa di discutere in dettaglio malattie come la colite ulcerativa o il morbo di Crohn: anche se la medicina naturale offre notevoli opzioni terapeutiche o di supporto terapeutico, soprattutto grazie alle ultime novità sulla relazione tra intolleranze alimentari e intestino, è assolutamente necessario che questo tipo di patologie sia gestito con l’aiuto del medico e sotto il suo stretto controllo.
Cerchiamo però di capire che cosa succede nella nostra pancia e perché il sistema immunitario intestinale può essere così importante per l’intero organismo.
Il GALT (Gut Associated Lymphoid Tissue) è il tessuto linfatico associato all’intestino. Soprattutto in virtù della sua estensione, rappresenta uno dei più importanti settori immunitari (quindi di difesa) dell’organismo. Si calcola infatti che la superficie intestinale corrisponda all’incirca a 350-400 metri quadrati, una grossa area, se la confrontiamo con i circa 60 metri quadri di superficie respiratoria e con circa 2 di superficie cutanea.
Per anni si è pensato che l’intestino svolgesse esclusivamente funzioni di assorbimento, ma oggi si conosce molto meglio il suo ruolo essenziale nella vita del sistema immunitario di ogni organismo umano.
L’intestino consente infatti il transito attraverso il corpo umano di una notevole quantità di sostanze estranee ed è quindi costantemente e direttamente esposto all’aggressione e alla sollecitazione antigenica batterica, alimentare, parassitaria e virale.
La funzione del sistema immunitario presente a livello intestinale è consentire l’assorbimento di sostanze nutritive senza che si verifichino reazioni immunitarie nocive per l’ospite, quindi procedere all’eliminazione dei microrganismi patogeni e di eventuali sostanze tossiche introdotte con l’alimentazione.
Per i “trucchi base” volti a mantenere in forma il sistema immunitario intestinale, clicca qui.
Nell’intestino ci sono aggregati di cellule del sistema immunitario chiamate “placche del Peyer”, che sono un cruciale centro di “elaborazione della sostanza estranea”.
Tutta la mucosa intestinale, d’altra parte, è intessuta di cellule del sistema immunitario, quindi il numero di linfociti totali di un organismo “schierato” sul fronte intestinale è enorme.
Quando questi linfociti incontrano le sostanze estranee, possono migrare e raggiungere sedi distaccate (cuore, cervello, muscoli, articolazioni, ecc.) da dove possono innescare reazioni infiammatorie prolungate.
A complicare in un certo senso questi dati va aggiunto il fatto che sono ormai certe, e molto ben documentate, le interazioni tra sistema immunitario intestinale e sistema nervoso centrale.
Si è appurato infatti che il sistema nervoso e il sistema immunitario interagiscono e condizionano il reciproco funzionamento.
Le due patologie più importanti di questo gruppo sono la colite ulcerativa (con le sue sottoclassificazioni come la proctite o la sigmoidite, ecc. a seconda del tratto di colon interessato) e il morbo di Crohn.
Si tratta di due forme di colite che si accompagnano a un’infiammazione importante del colon (e in alcuni casi di altre parti dell’intestino).
I sintomi sono abbastanza simili nelle due forme e comprendono febbre, dolori addominali, problemi di accrescimento nei bambini, sangue o muco nelle feci, diarrea (ma non necessariamente tutti insieme).
Queste due forme determinano alterazioni importanti della mucosa, con segni infiammatori caratteristici che ne permettono la diagnosi.
È facile riscontrare in queste forme un collegamento con situazioni di stress cronico e di ansia, ma la componente immunologica alla base di queste patologie è imponente.
Fin dal 1989 si è osservato come i danni della mucosa siano la conseguenza di una vasculite dei vasi che nutrono l’intestino stesso, e questo significa che la genesi della malattia infiammatoria intestinale può essere collegata in gran parte a ipersensibilità.
È ormai accertato che all’evoluzione della malattia, o alla reazione di sanguinamento rettale, contribuiscono anche fenomeni di allergia alimentare.
Alcuni studi hanno segnalato come una dieta che tenga conto degli alimenti che scatenano la sensibilizzazione alimentare ottenga lo stesso effetto di una terapia cortisonica.
È stato inoltre evidenziato che il lievito e i fermenti introdotti con l’alimentazione (e quindi pane, grissini, crackers, formaggi, vino, alcolici, yogurt, aceto, ecc.) sono molto spesso coinvolti nella genesi e nell’evoluzione della patologia di Crohn. La reazione al latte o al frumento è invece più frequente nella colite ulcerativa.
Di fronte a patologie di questo genere, è realmente possibile dare supporto al trattamento farmacologico con un approccio nutrizionale, sia indagando sia trattando la presenza di possibili intolleranze alimentari.
Nella nostra pratica clinica riteniamo fondamentale l’effettuazione di un test per la misurazione della infiammazione da cibo e la formulazione di una dieta adeguata.
Alla dieta associamo la somministrazione di supporti minerali o vitaminici che aiutino l’organismo a riportarsi in equilibrio senza trascurare, ovviamente, il necessario supporto farmacologico – naturale o non – e psicologico o comportamentale perché coinvolgere nella cura anche la componente psichica favorisce sempre il processo di autoguarigione.
Accade purtroppo abbastanza spesso che una celiachia venga diagnosticata in condizioni di buona salute, solo perché alcuni esami sono risultati “mossi”.
In considerazione dei dati scientifici a disposizione e della realtà clinica che valutiamo quotidianamente, possiamo fare tre diverse considerazioni.
- Esiste una forma di celiachia importante, grave, a esordio acuto soprattutto nell’infanzia, ben riconoscibile, che va trattata con l’eliminazione del glutine per tutta la vita. In questo caso non si possono inventare soluzioni alternative.
- Esistono forme transitorie di celiachia, con un esordio in genere più subdolo, che si sviluppano soprattutto in soggetti con predisposizione allergica, che mangiano quasi sempre frumento senza concedersi alcuna varietà alimentare o fasi di riposo. In queste forme, lo studio delle intolleranze alimentari offre una consistente possibilità di controllo. Il modo drastico e definitivo con cui si è sempre trattata questa forma non è quindi l’unico possibile e i pazienti che ne soffrono riescono talvolta a riacquistare sotto stretto controllo medico – per lo meno nella nostra esperienza clinica – la possibilità di assumere la farina e il glutine almeno per un giorno alla settimana (talvolta si riesce addirittura ad arrivare a 2-3) a patto che la dieta negli altri giorni sia assolutamente rigorosa.
- Esistono forme (soprattutto adulte) che oggi vengono considerate possibili celiachie ma in realtà hanno semplicemente a che fare con un abuso sistematico di glutine nella dieta. In questi casi è normalmente possibile una diagnosi più precisa che tenga conto di una adeguata valutazione medica e allergologica. Talvolta sono fenomeni in cui un breve periodo di dieta è sufficiente per ripristinare l’equilibrio.
In tutti i casi la cautela è d’obbligo. Non è giusto in primo luogo creare illusioni e nemmeno ancorarsi a false speranze. In tutti i casi che trattiamo cerchiamo innanzi tutto di comprendere se l’organismo ha davvero esaurito la sua possibilità di recupero autonomo oppure no.
Ma finché non abbiamo prova certa del contrario, dobbiamo considerare la persona con una diagnosi di celiachia come appartenente al primo gruppo. Sarebbe scorretto ventilare la possibilità di riprendere una nutrizione più varia a persone che in realtà dovranno seguire una dieta priva di glutine per sempre.
La possibilità di sottoporre a “prova” la diagnosi di celiachia, tuttavia, è quasi sempre rifiutata dai gastroenterologi tradizionali, che si fermano alla diagnosi e alle terapie classiche, evitando di porsi il problema chiedendosi se alla base della patologia non ci sia un possibile disordine immunologico riparabile.
Quando la storia clinica del paziente ci indica che il caso potrebbe ricadere nella seconda o nella terza categoria, la prassi che seguiamo consiste nell’eseguire delle valutazioni e delle prove di carico, sempre entro limiti che non creino danno, e poi nel muoverci in questa direzione.
La valutazione attenta delle lievi oscillazioni degli anticorpi (AGA, AGG, EMA, TGA) e l’andamento della crescita di peso e altezza del bambino, o dei segni clinici nell’adulto, ci consente talvolta di arrivare a precisare il problema.
È ovvio che questo tipo di procedura è di stretta competenza del medico, a cui spetta anche il compito di chiarire al paziente i limiti, le possibilità e i rischi connessi con questa pratica, della quale è il singolo medico a doversi assumere la responsabilità.