Quando il conto dell’autoimmunità è davvero salato
La prevalenza delle malattie autoimmuni sta crescendo in modo impressionante in tutte le nazioni industrializzate.
I farmaci per la loro cura (non sempre efficaci e spesso portatori di pesanti effetti collaterali) stanno purtroppo conquistando quote di mercato sempre crescenti creando un importante aggravio di costi per qualsiasi servizio sanitario.
Un conto salato quindi, sia dal punto di vista economico sia da quello personale, che ha molto a che fare con il semplice sale da cucina (cloruro di sodio) e con i cibi ad alto contenuto salino (pane, cracker, prosciutti, dadi, carni conservate, formaggi).
Molti lavori stanno infatti mettendo in stretta correlazione lo sviluppo delle malattie autoimmuni (dalla tiroidite di Hashimoto all’Artrite reumatoide) con lo stimolo indotto dall’aumentato consumo alimentare di sale, sotto qualsiasi forma.
Fino ad ora è sempre stato chiaro il rapporto tra consumo di sale e aumento della pressione arteriosa, poi si è capito che la mortalità da qualsiasi causa poteva essere correlata nella sua crescita all’aumentato consumo di sale.
Tanto più elevato il consumo di sale, tanto più elevata la possibilità di riceverne dei danni, con un indice di mortalità a questo strettamente correlato.
Un nostro attento lettore (il biologo nutrizionista di Cagliari Andrea Deledda) alla pubblicazione su Eurosalus di quell’articolo commentava segnalando alcune ricerche sul rapporto tra sale ed autoimmunità, che si iscrivono perfettamente nella attualissima relazione esistente tra ambiente esterno (ciò che si mangia) e sistema immunitario.
I cibi ad alto contenuto salino sono spesso prodotti fermentati, ed una connessione tra autoimmunità e lieviti è stata segnalata proprio da queste pagine.
Gli studi di un gruppo di ricerca della Yale School of Medicine hanno consentito di pubblicare su Nature non tanto il dato clinico in sé (il sale favorisce la comparsa di malattie autoimmuni), ma uno dei possibili meccanismi che lo giustifica, cioè l’attivazione di un particolare gruppo di linfociti chiamati Th17 (Kleinewietfeld M et al, Nature. 2013 Apr 25;496(7446):518-22. doi: 10.1038/nature11868. Epub 2013 Mar 6).
Questa ricerca si è basata sugli studi precedenti effettuati presso la Harward Medical School e pubblicati qualche mese prima sempre su Nature. Gli autori segnalavano proprio le cellule Th17 come possibili cellule immunitarie coinvolte nei processi di autoimmunità e di sensibilità alla concentrazione salina (Wu C et al, Nature. 2013 Apr 25;496(7446):513-7. doi: 10.1038/nature11984. Epub 2013 Mar 6).
Probabilmente troveremo altre cellule sensibili anche ad altre concentrazioni di sostanze che potranno correlare con altri gruppi di alimenti, ma di certo stiamo assistendo ad una codifica finalmente scientifica delle azioni alimentari sul sistema immunitario. Sarà possibile contrastare con maggiore determinazione i sorrisetti ironici di molti colleghi che sottostimano l’importanza delle scelte alimentari per il trattamento dei disordini immunologici.
Ci troviamo quindi di fronte a considerazioni scientifiche e contemporaneamente sociologiche. Se il conto sanitario è salato, si dovrebbe contrastare il fatto che molte aziende aumentino progressivamente il contenuto di sale dei loro prodotti per stimolarne la palatabilità e il richiamo all’acquisto.
Dalla nostra parte abbiamo la consapevolezza e per fortuna la conoscenza di molti processi legati all’infiammazione e sappiamo come muoverci. Eppure sappiamo quanto sia difficile modificare abitudini consolidate. Nel centro SMA in cui lavoro seguiamo le persone con patologie autoimmuni con percorsi terapeutici specifici che prevedono l’analisi approfondita dei livelli infiammatori e della dieta seguita (test GEK Lab)..
Più facile sarebbe prevenire questa degenerazione aiutando fin dalla scuola materna ad orientare scelte alimentari che non obblighino l’uso di cibi industriali (anche 100 volte più salati degli artigianali), ma favoriscano l’uso di frutta e verdura e di prodotti domestici sicuramente più sani.