Statine obbligatorie dopo i 50 anni?
Tutti dopo i cinquant’anni dovrebbero assumere statine. Così titola l’ articolo lanciato qualche giorno fa sul Telegraph. Il tema è controverso e apre il dibattito su temi di salute pubblica e individuale.
Sembra essere stato riscontrato che prendere statine (farmaci che bloccano la produzione endogena di colesterolo agendo su un enzima essenziale della via costruttiva) riduca il rischio di infarto anche nella popolazione definita “sana”. Le attenzioni rispetto all’affermazione sono poste soprattutto nei riguardi dei costi della salute pubblica: identificare un portatore di rischio di problematica cardiaca ha un prezzo elevato, e quello di far prendere statine a tutta la popolazione al di sopra dei 50 anni sarebbe inferiore. Qual è però il prezzo per la salute individuale?
L’assunzione di statine è stata, ad esempio, correlata con lo sviluppo di problematiche depressive e di diabete. Lo stesso studio di cui parliamo ha evidenziato, pur nel breve termine (la durata dell’osservazione è stata di soli 5 anni), effetti collaterali quali mal di testa, dolori muscolari, disturbi dello stomaco e funzione epatica alterata oltre che disturbi del sonno, della memoria, e depressione appunto.
È sicuramente importante osservare una diminuzione del rischio di problematica cardiaca, ma è altrettanto importante ed essenziale evidenziare gli effetti collaterali degli stessi farmaci che vanno a toccare aree delicatissime per il singolo e per la società, e anche in termini monetari. È inoltre da ricordare che la popolazione osservata è stata seguita per soli 5 anni, il che rende assolutamente prematuro anche il solo pensiero di inserire la prescrizione di statine a lungo termine e senza alcuna distinzione, nella pratica clinica. E, in fondo, i medici forse vengono anche formati per qualche motivo.
Non sarà forse la solita mossa delle case farmaceutiche che vogliono guadagnare un po’ di più? Si spera di no, eppure il dubbio resta.
La problematica cardiaca continua ad affliggere e a sconvolgere; ecco perché trovare metodi diagnostici che permettano di identificare un rischio sensato prima che avvengano episodi di difficile controllo è nettamente auspicabile; non lo è sottoporre un’intera popolazione ad un farmaco con evidenti e importanti effetti collaterali, solo per ridurre un rischio (e potenzialmente aprirne altri).
Lavorare sulla prevenzione è un’iniziativa bella e potente. Purché sia fatta nella sicurezza dell’utente e del paziente, magari puntando (nello studio del medico, o nell’ambulatorio) al lavoro sull’attività fisica quotidiana e su una alimentazione più sana, invece che alla prescrizione di un farmaco con tali effetti.