Celiachia: non è solo il glutine che fa ammalare, ma la sua quantità
Per ogni grammo in più di glutine nella dieta, nei soggetti che hanno una predisposizione genetica alla celiachia, il rischio di sviluppare la malattia aumenta del 7%. Significa che l’elemento scatenante della celiachia è anche la quantità di glutine che si utilizza.
Fino a oggi l’importanza della quantità di glutine della dieta era negata da quasi tutti gli esperti, considerando questa malattia autoimmune legata solo alla predisposizione genetica e allo stimolo glutinico, indipendente dalla quantità introdotta.
Si credeva, insomma, che fosse importante la predisposizione genetica e che tra i vari stimoli che facessero attivare la malattia ci fosse, sicuramente, il contatto con il glutine, ma che la quantità usata fosse del tutto ininfluente.
Dalla ricerca pubblicata su JAMA nell’agosto del 2019, effettuata da un team scientifico internazionale (Svezia, Finlandia, USA, Germania) su quasi 7000 bambini, è emerso appunto che per ogni grammo di glutine (l’equivalente di un pezzo di pane) introdotto in più nell’alimentazione il rischio di sviluppare anticorpi antitransglutaminasi e celiachia cresceva del 7% (Andrèn Aronsson C et al, JAMA. 2019 Aug 13;322(6):514-523. doi: 10.1001/jama.2019.10329).
La produzione di anticorpi anti glutine (antitransglutaminasi IgA) non corrisponde alla celiachia, anche se ne può essere un segnale premonitore (la celiachia va confermata attraverso biopsie intestinali positive). Un livello di questi anticorpi più elevati, anche in assenza di qualsiasi sintomo celiaco, merita una attenzione e una cautela importanti di cui ci si deve fare carico per attivare quindi una attenta prevenzione nutrizionale.
Questa stessa correlazione tra quantità di glutine e sviluppo di celiachia era stata ipotizzata già nel 2016 attraverso la pubblicazione su Clinical Gastroenterology and Hepatology di una ricerca solo svedese che evidenziava il raddoppio (+100%) dei casi di celiachia per contenuti più elevati di glutine nella dieta dei bambini predisposti geneticamente.
Quindi, capire se su base individuale si sta mangiando troppo glutine, troppo latte, troppo zucchero, troppo Nichel o troppo di qualsiasi altro gruppo alimentare, diventa una parte importante di ogni aspetto clinico legato alla nutrizione.
Da pochi mesi la rivista scientifica internazionale di nutrizione Nutrients ha pubblicato i risultati di uno studio molto ampio, svolto dal nostro gruppo di ricerca, dalla Inflammation Society (UK) e dal professor Enrico Ferrazzi, che ha documentato, attraverso la misurazione delle IgG alimento specifiche, che mangiare in eccesso o ripetitivamente un alimento determina l’incremento di IgG, che da un lato proteggono dall’allergia, ma dall’altro sono indicatori evidenti della quantità di alimento introdotto. Oggi questi valori si possono misurare attraverso un test Recaller 2.0.
Inoltre, misurare i valori di BAFF o di PAF (indicatori dell’infiammazione) e la variante genica che li modula, aiuta a capire come variare l’alimentazione personale per attivare il controllo o la risoluzione dei processi infiammatori e immunologici legati al cibo.
Nei confronti del glutine, questo vale sia per chi abbia una predisposizione genetica alla celiachia sia per chi semplicemente abbia una sensibilità al glutine non celiaca (NCGS).
Ci si trova attualmente in un momento di evoluzione scientifica per la quale si è compreso che l’infiammazione da cibo, con le sue differenti forme di sviluppo (almeno 3 forme conosciute fino ad oggi), è alla base della maggior parte delle malattie croniche e degenerative e conoscere in anticipo il proprio profilo alimentare e il proprio livello di infiammazione aiuta a prevenire i disturbi legati agli squilibri alimentari.
Da oggi, di certo, il concetto di “troppo” di un alimento, anche se buono e sano, entra di diritto a fare parte della diagnostica medica validata.