Fegato grasso: non più solo colpa dell’alcol
La steatosi epatica, o fegato grasso, è una patologia dovuta all’accumulo di grassi a livello del fegato.
È generalmente attribuita all’abuso di alcol, nella sua forma più classica e, se non controllata, può avere come conseguenza lo sviluppo di cirrosi e cancro del fegato.
L’alcool è la causa storicamente più nota di steatosi.
Oggi la forma più diffusa è rappresentata dal “Non Alcoholic Fatty Liver Disease“, letteralmente “malattia del fegato grasso non dovuta all’alcol”.
Questa forma sembra essere strettamente associata alla sindrome metabolica e coinvolge sempre più persone a età sempre più basse.
La sindrome metabolica è clinicamente definita come la presenza concomitante di molteplici fattori di rischio legati soprattutto alla patologia cardiovascolare, ma anche di un ampio ulteriore spettro che va dal cancro all’Alzheimer, passando in maniera concreta anche dalla steatosi epatica non alcolica.
In particolare, le variabili da valutare per la definizione clinica della sindrome metabolica sono: pressione arteriosa tendente all’alto (valori maggiori di 130/85), alterata sensibilità al glucosio (glicemia a digiuno maggiore di 100 mg/dl), circonferenza addominale maggiore di 100 cm per i maschi e 85 cm per le femmine, colesterolo HDL minore di 40 mg/dl nell’uomo e 50 mg/dl nella donna, trigliceridi nel sangue maggiori di 150 mg/dl.
Le alterazioni descritte sono tutte strettamente legate all’aumento della resistenza insulinica, ossia l’acquisita incapacità di spostare gli zuccheri dal sangue, dove sono dannosi, al loro luogo adibito, dove poter essere utilizzati in maniera sensata.
Le diete ricche di zuccheri sono uno dei maggiori fattori che producono sindrome metabolica e non sorprende il risultato dello studio pubblicato nei giorni scorsi su Food and Function che valuta la risposta clinica e biochimica di topini con una dieta ricca di saccarosio (classico zucchero da cucina) in un caso, e di fruttosio (dolcificante naturalmente contenuto nella frutta) nell’altro, rispetto al mangime classico.
Dopo quindici settimane di analisi i topini con la dieta ad alto impatto glicemico (entrambe quella ricca di fruttosio e quella ricca di saccarosio) mostravano aumento della glicemia, dell’insulinemia (valore diretto di resistenza insulinica) e del colesterolo nel sangue, aumentati livelli di citochine infiammatorie e tutte le caratteristiche tipiche del “fegato grasso” (a origine non alcolica in questo caso).
È interessante notare come, soprattutto in termini di alterazioni epatiche, la dieta ricca in fruttosio abbia avuto risultati più gravi di quella ricca in saccarosio.
La motivazione di tale risultato è da ricercarsi nel meccanismo biochimico di metabolizzazione dei due zuccheri e che vede una “automodulazione” nel caso dello zucchero da cucina, assente invece quando si parla del fruttosio.
Risultati simili sono stati ottenuti anche con l’uso di altri dolcificanti diversi dal fruttosio, facendo pensare a un possibile ruolo del sapore “dolce” nello sviluppo della sindrome metabolica stessa e delle alterazioni a essa correlate.
L’utilizzo non solo dello zucchero, ma anche dei dolcificanti, è spesso decisivo nello sviluppo delle più svariate patologie, tra cui un talvolta non spiegato e sempre più giovanile “fegato grasso”.
Agire modulandone l’introito e preferendo alimenti a più basso impatto glicemico (cereali integrali, leguminose, verdura cruda e cotta) può rappresentare una svolta importante per la salute di ciascuno.
È importante in questo caso anche spiegare che, se la verdura ha un impatto glicemico tendenzialmente più basso della frutta, l’uso di fruttosio agisce come fattore di rischio soprattutto quando usato “da solo”, in pastiglie o come dolcificante propriamente detto (in torte, biscotti, gelati, ecc.).
Il fruttosio presente nella frutta fresca è infatti estremamente ridotto rispetto al resto delle componenti che ne modulano l’assorbimento (fibra in prima linea), rendendone, nella maggior parte dei casi, accettabile l’assunzione sotto questa forma completa.
Non solo più l’alcol, quindi, a generare malattia epatica. Oggi più diffusa è questa diversa sostanza di abuso e che spesso crea dipendenza. Essa non coinvolge più “solo” adulti e adolescenti ma anche bambini sempre più piccoli e in tenera età e si chiama “sapore di zucchero”.