La stanchezza e la fatica post-COVID. Il trattamento corretto che aiuta a prevenire i danni futuri
La stanchezza muscolare e la fatica sono sintomi sempre più frequenti tra le persone che hanno superato l’infezione da coronavirus. Che si sia trattato di una forma lieve o di una forma complicata e più grave, ci si è resi conto che in una fase immediatamente successiva alla guarigione clinica dall’infezione, comparivano stanchezza, affaticamento e difficoltà di recupero delle energie.
All’inizio potevano sembrare sintomi correlati con il particolare stato emotivo dovuto alla malattia, al lockdown o alla paura, ma poi le evidenze scientifiche hanno precisato la base organica e metabolica di queste condizioni, aiutando a comprendere che l’infezione da SARS-CoV-2 oltre a determinare una fase “acuta” di malattia riesce ad attivare una cascata di eventi complessi che possono alterare il metabolismo, il sistema nervoso centrale, il sistema immunitario e tutto il sistema digestivo.
È impressionante, ad esempio, leggere le statistiche legate alla malattia di Kawasaki, una vasculite con malattia infiammatoria sistemica coinvolgente più organi, che si presenta nel bambino e che è fortemente correlata con il COVID-19. Mentre la presenza di questa malattia è stata quasi inesistente durante le fasi più intense dell’epidemia, la crescita della “Kawasaki” o di altre malattie sistemiche infiammatorie è stata successiva, a infezione già superata; come se l’organismo avesse ricevuto un segnale di squilibrio che abbia poi iniziato a manifestarsi ben dopo la guarigione virologica.
La ricerca scientifica stava già muovendosi nel tentativo di comprendere questi aspetti. Sono gli stessi che hanno aiutato a capire che le complicanze del COVID-19 erano legate alla tempesta citochinica contemporanea all’infezione.
Oggi ci sono, infatti, dati precisi che caratterizzano il coinvolgimento delle sostanze glicanti nei disturbi successivi all’infezione. Sono le sostanze prodotte da una alterata risposta individuale a glucosio, fruttosio, alcol e polioli e che sono individuabili con il test PerMè o con il GlycoTest.
Si è capito che queste sostanze glicanti (chiamate dalla scienza allarmine o glicotossine, tra cui fa spicco la HMGB1) sono tra quelle maggiormente responsabili sia dell’invasione virale sia della degenerazione indotta a cascata dal virus. Interferiscono con la Barriera Emato-Encefalica, aprendo canali inaspettati di passaggio, così come con le “tight junction” dell’intestino, facilitando l’ingresso e la successiva diffusione del virus anche tramite il settore digestivo (oltre che facilitare l’accumulo adiposo e indurre resistenza insulinica).
Sono stati capiti meccanismi prima non chiari, addirittura evidenziando, al di là della perdita del gusto e dell’olfatto, il delirio e la confusione mentale (se si volesse parlare degli aspetti correlati al sistema nervoso centrale) come possibili sintomi di esordio del COVID-19. La neuroimmunologia ha chiarito che una volta attivato il processo infiammatorio, questo può iniziare a determinare la formazione di “grovigli neuronali” corresponsabili di Alzheimer e Parkinson, condizioni da controllare in futuro per chiunque sia passato in mezzo al COVID. Anche sintomi neurologici come la depressione possono essere correlati alla attivazione contemporanea metabolica e virale.
La prevenzione di questi aspetti è molto più importante della cura tardiva. Se già oggi è conosciuto che il sistema nervoso centrale può essere coinvolto, che il sistema immunitario è fortemente squilibrato dall’infezione, che la aumentata permeabilità intestinale è una condizione favorente le patologie future e che il metabolismo energetico è modificato dalle condizioni di glicazione e dalla infezione virale stessa, si hanno in mano gli strumenti per affrontare la stanchezza e per prevenire le possibili evoluzioni future.
Cosa fare oggi
Il primo strumento a disposizione è il controllo dei livelli infiammatori dovuti a zuccheri e alimenti (il Test PerMè e il GlycoTest possono aiutare in questo) per evitare o almeno ridurre l’attivazione a cascata dei processi infiammatori e degenerativi favoriti dalla interazione tra invasione virale e attivazione delle citochine (BAFF, PAF, TNF-alfa, Interleuchina 6) e delle glicotossine come la HMGB1. Poi risultano fondamentali gli apporti di Coenzima Q10, per la sua azione di sostegno alla attività muscolare (al dosaggio di 100 o 200 mg di ubichinone al giorno) e di Palmitoiletanolamide (PEA) al dosaggio di 300-600 mg al giorno (1 o 2 compresse ad esempio di P.E.A. Life da 300 mg dei Farmacisti Preparatori).
PEA fa parte dei prodotti studiati da Rita Levi Montalcini e in particolare l’azione di PEA è quella di stabilizzare le membrane dei mastociti, cellule del sistema immunitario che partecipano dell’infiammazione scaricando a valle una serie di sostanze irritative che attivano a cascata possibili reazioni dolorose e degenerative. Stabilizzare la loro membrana significa agire in termini di terapia della stanchezza, di molti sintomi neurologici e soprattutto in termini di prevenzione futura (non a caso si parla di PEA come di una sostanza in grado di rallentare l’invecchiamento cellulare e sistemico).
Nella degenerazione sistemica successiva al COVID-19 è sempre coinvolto il fattore nucleare kB (NFkB), che sta al centro di tutte le regolazioni metaboliche e degenerative dell’organismo. La Curcuma ne controlla l’eccessiva e dannosa attivazione e quindi rientra di rigore tra le sostanze che possono aiutare il trattamento della stanchezza e la prevenzione dei danni futuri. L’uso di 1-2 softgel di curcumina (brevetto Novasol) da circa 600-700 mg ciascuna (a seconda dei produttori finali) è il dosaggio indicato. Per comprendere l’efficacia possibile della curcuma basta dire che svolge una azione antidiabetica, di regolazione immunologica e di supporto al tono dell’umore oltre che di neuroprotezione dalla malattie degenerative. Esattamente le condizioni di cui si è appena discusso.
A fianco di queste sostanze resta fondamentale la verifica della digestione (eventuale supporto con enzimi), il controllo dei livelli di Vitamina D3 che agisce sia sull’infiammazione sia sulla regolazione metabolica, il supporto con probiotici quando necessario e l’impiego del Selenio che nella giusta quantità (intorno ai 50 mcg al giorno) aiuta l’organismo a evitare che il virus muti nel proprio organismo.
In sintesi, quindi, il supporto diretto per trattare la stanchezza post-COVID si attua attraverso:
- Controllo nutrizionale personalizzato dei livelli di infiammazione da zuccheri e alimenti, con particolare riferimento alla glicazione.
- Coenzima Q10 (100-200 mg di Ubichinone)
- PEA – Palmitoiletanolamide (300-600 mg al giorno)
- Curcumina (600-1200 mg al giorno)
A questi si possono aggiungere le corrette integrazioni di Vitamina D3, di probiotici e di Selenio in relazione ai sintomi presentati e alla storia clinica.
Nel centro SMA in cui lavoro, insieme allo staff medico e nutrizionale del centro, seguiamo i pazienti con questi sintomi attraverso percorsi personalizzati di terapia, gettando soprattutto le basi di una prevenzione futura grazie a protocolli individuali che suggeriscano il corretto stile di vita e l’eventuale integrazione necessaria.
La storia del COVID ha consentito delle evoluzioni di conoscenza scientifica importanti. Sulla base di quanto oggi è lecito pensare su base scientifica, si dovrà porre particolare attenzione allo sviluppo di
- malattie autoimmuni
- artrite nelle sue varie forme
- alterazioni glicemiche e diabete
- malattie neurodegenerative
Tutte le malattie virali, come anche l’influenza, possono stimolare, in piccola parte, queste risposte. Di certo però, l’intensità e la forza numerica con cui lo sta facendo il SARS-CoV-2 merita una particolare attenzione e una cautela notevole.
Mettere in atto il principio di prevenzione attraverso il controllo infiammatorio e della glicazione, entrambi documentatamente correlati alle complicanze COVID, può diventare espressione di saggezza e di cura vera di se stessi e dei propri cari.