Osteoporosi e bifosfonati: utili due anni di terapia, mentre trattamenti protratti aumentano il rischio di frattura
Parliamo di donne e di osteoporosi. Donne che avrebbero bisogno di certezze e che invece vengono impaurite da diagnosi che le confrontano con uomini di 20 anni (T-score) anziché con coetanee sane e in forma (Z-score). E a cui per anni sono stati prescritti per anni ottimi farmaci che stanno invece mostrando importanti effetti collaterali se usati a lungo.
Si tratta dei bifosfonati, che rappresentano la classe di farmaci anti-osteoporosi più diffusi al mondo. Dei quali oggi si scopre che un uso contenuto (tra i 2 e 5 anni di terapia) è utile, mentre nelle donne che usano questi prodotti per un periodo prolungato (ad esempio 10 anni) la fragilità delle ossa può aumentare anziché diminuire. Lo ripeto: la terapia prolungata con i bifosfonati può rendere le ossa più fragili, non più forti, come le donne si aspetterebbero.
Una ricerca serissima, pubblicata sul Journal of American Geriatric Society nel settembre del 2017, ha valutato cosa sia avvenuto durante lo studio “Women’s health initiative“, completato da 97.000 donne e sicuramente uno degli studi di coorte meglio seguiti negli ultimi anni negli Stati Uniti (Drieling RL et al, J Am Geriatr Soc. 2017 Sep;65(9):1924-1931. doi: 10.1111/jgs.14911. Epub 2017 May 29).
Alla fine dello studio, in un sottogruppo di 5.120 donne su cui era misurabile l’impiego di bifosfonati, si è potuto valutare il tipo di relazione esistente tra l’uso di questi farmaci per un tempo protratto e la prevalenza di fratture ossee.
I risultati sono stati abbastanza sconcertanti, se si considera il fatto che quando si inizia una terapia del genere molti medici suggeriscono di proseguirla “a vita”.
Le nuove linee guida sull'osteoporosi aiutano a non sentirsi osteoporotici quando si è sani
In una analisi multivariata (termine tecnico per dire che sono stati considerati anche tutti gli altri fattori di rischio, come l’età), l’uso di bifosfonati per più di 10 anni è risultato associato ad un rischio di frattura di ogni tipo PIÙ ELEVATO di quello presente nelle donne che avevano usato i prodotti per soli due anni.
Lo stesso tipo di risultato emergeva considerando anche le donne che avevano avuto una precedente frattura osteoporotica.
Questo significa che il fatto di essersi rotti un osso precedentemente non è una giustificazione scientifica sufficiente per chiedere il proseguimento della terapia antiosteoporosi a tempo indeterminato.
Fortunatamente il 9 maggio 2017 sono state pubblicate le nuove linee guida statunitensi sulla diagnosi di osteoporosi, che ripongono in essere anche il valore dello Z-score, il punteggio di valutazione che mette in comparazione la donna analizzata con una sua coetanea sana, mentre purtroppo il T-score utilizzato fino ad oggi confronta la donna (anche un’ottantenne) con le ossa di un giovane paracadutista maschio di 20 anni…
Ci auguriamo che presto questo approccio venga recepito anche dalle linee guida italiane, nel rispetto del buon senso e della salvaguardia della salute delle donne.
Noi sappiamo che la salute dell’osso non dipende solo dai farmaci ma anche dal livello di vitamina D, dal controllo della infiammazione dovuta al cibo, che è perfettamente misurabile, dall’attività fisica e dalla corretta assunzione di proteine nel rispetto delle indicazioni della Harvard Medical School.
È con questi schemi di supporto che aiutiamo le donne che arrivano ai nostri centri a “spaventarsi” solo quando è davvero necessario e a mettere in atto quei cambiamenti di stile di vita che garantiscono per il benessere e anche per la salute delle ossa.