Obesità: porzioni più leggere o meno merendine?
Alcuni ricercatori americani hanno constatato che questo incremento si è sicuramente verificato, ma il problema forse non è solo nelle dimensioni del piatto…
Pochi giorni fa, il Journal of the American Medical Association (JAMA 2003 Jan 22-29;289(4):450-3) e successivamente il Journal Watch, hanno pubblicato i risultati di due ricercatori del dipartimento di nutrizione della North Carolina University, che hanno confrontato il valore calorico dei pasti medi nel 1977, nel 1989 e nel 1996.
La porzione media di gran parte delle preparazioni alimentari è cresciuta in questi anni in modo variabile tra ¼ e la metà in più della porzione base.
Questo significa che in termini di calorie la media di assunzione giornaliera è passata da 1791 kcal a 1985 al giorno.
Particolarmente interessante è l’aumento di calorie subito da un medio cheeseburger (da 397 a 533 kcal) ma soprattutto quello delle bibite, che sono passate dalle 144 kcal per porzione alle 193 di oggi.
E’ evidente quindi che il problema della crescita di peso della popolazione è connesso all’aumento complessivo dell’uso di carboidrati, come confermato anche dagli studi più recenti sull’azione dell’insulina (ricerca le parole carboidrati e insulina nel nostro sito).
Ma non dipende strettamente dalle porzioni consumate. Nei pasti consumati a tavola infatti l’incremento calorico medio è stato appena del 3% (da 1588 a 1634 kcal).
Snacks, merendine e bibite invece hanno subito un incremento sorprendente, che tocca punte del 75%, con standard che si aggirano sul 40% circa in più delle porzioni originali.
Inoltre, l’uso di bibite e succhi dolci (anche quelli di frutta) non determina sazietà, e il loro uso facilmente si trasforma in abuso.
Il problema dell’aumento medio delle porzioni va quindi in parte ridimensionato. L‘aumento del peso è legato molto di più all’uso indiscriminato di spuntini vari e di “intermezzi” alimentari, sempre più spesso svuotati di valori nutrizionali veri e salutari.
Recentemente il rapporto tra eccesso di carboidrati alimentari, aumento dell’insulina (e deposito di grasso corporeo) e aumento della induzione tumorale è stato dimostrato da molti lavori scientifici e la comunità internazionale sta arrivando ad accettare questo principio, inizialmente contrastato. Ma in questi ultimi mesi sono emersi dati molto preoccupanti, che pongono serissimi dubbi su alcune consuetudini alimentari.
Per molti anni una saggia cautela popolare ha posto alcune critiche all’abuso di “patatine fritte” in sacchetto, e con buon senso comune si è sempre posta attenzione alle patate fritte (anche se preparate a casa propria), in relazione alla presenza di un eccesso di grassi cotti presenti nella patata a fine cottura e per l’eccesso di sale presente nell’alimento.
Con maggiore precisione si è poi riconosciuta la presenza nel prodotto finale di acidi grassi in forma “trans”, cioè i noti grassi vegetali idrogenati, nocivi globalmente alla salute.
Oggi invece, grazie all’attento lavoro di un gruppo di ricercatori del Dipartimento di Chimica Ambientale dell’Università di Stoccolma, si è scoperto che il fatto stesso di friggere le patate determina una presenza di un quantitativo elevato di acrilamide nel prodotto finale, soprattutto in caso di frittura dei carboidrati.
In Italia tra i 45 e i 65 anni, oltre il 50% delle persone è soprappeso, e il 15% francamente obeso. La situazione più preoccupante si sta verificando però soprattutto tra i bambini inferiori ai 10 anni, dove il tasso di obesità ci sta tristemente portando ai primi posti in Europa.
Sempre di più appare evidente la relazione con l’uso di cibi pieni solo di calorie e privi di valore biologico, ad esempio le merendine industriali e le bibite zuccherate o alcuni succhi di frutta.
Non è casuale che alcuni medici dell’Università di Filadelfia abbiano proposto di apporre sulle confezioni delle merendine la stessa dicitura presente sui pacchetti di sigarette: “nuoce gravemente alla salute”.
Un gruppo di ricercatori del Children’s Hospital di Boston ha voluto approfondire ed esaminare la relazione tra uso di bevande dolci o dolcificate e obesità infantile.
Il lavoro, pubblicato nel 2001 su Lancet, ha purtroppo reso evidente il fatto che l’assunzione di queste bevande è significativamente correlato con l’obesità infantile.
Molti sostenevano che il bevitore di soft drinks facesse meno movimento fisico di chi non li beve, o mangiasse di più dei propri compagni, ma la precisa estrapolazione dei dati e la correzione di questi parametri ha purtroppo confermato che l’assunzione di bevande zuccherate determina in modo lineare un aumento della massa grassa corporea individuale e un incremento della frequenza di obesità nella popolazione.
La causa principale sembra essere legata alla “insensibilità” dell’organismo, che recepisce il senso di sazietà da dolce solo se viene introdotto qualcosa di solido.
La bevanda liquida non determina questo senso di sazietà e l’effetto calorico va a sommarsi a quello della “normale” alimentazione.
In questo devastante panorama serve comunque ricordare la straordinaria capacità di adattamento di ogni essere vivente.
Per non perdere la speranza è utile ricordare che le sorti vitali di un organismo dipendono più dal fatto di mangiare sostanze salutari, piuttosto che non dal solo evitare cibi dannosi.
In altre parole, come ha confermato uno studio combinato della Medical School di Harvard e del Karolinska Institutet di Stoccolma, chi mangia cibi sani (cereali integrali, frutta e verdura, acqua fresca, oli crudi, carboidrati complessi) anche se ogni tanto mangia cibi “proibiti” sopravvive molto meglio e si ammala molto meno di chi, pur evitando sostanze nocive, non ha anche un atteggiamento attivo” nei confronti della propria salute.
Come sempre abbiamo sostenuto, il benessere non si fonda su rinunce insostenibili, ma su un sano e consapevole equilibrio nelle proprie scelte, anche alimentari.