Il cibo che cura: dal Crohn alla Colite ulcerativa
Sono state considerate per anni malattie a sé stanti, dovute a cause sconosciute. Da poco, molti autori iniziano a considerare le malattie infiammatorie intestinali (IBD) come condizioni profondamente connesse con l’alimentazione.
Tutti i pazienti lo hanno sempre pensato: chi soffre di questi disturbi chiede al medico come deve mangiare e per anni la maggior parte dei medici ha sempre negato qualsiasi ruolo del cibo nella comparsa di queste malattie. Andando contro le percezioni delle persone malate, ma continuando a negare l’effetto alimentare sulle malattie infiammatorie intestinali, spesso a dispetto delle evidenze cliniche e di alcuni importanti lavori internazionali che suggerivano un approccio diverso.
Nel nostro centro, dove da anni trattiamo queste forme con un forte supporto dato dalla scelta di schemi dietetici che riducano l’infiammazione da cibo, ci siamo spesso sentiti delle “mosche bianche”, ma fortunatamente da qualche anno abbiamo il conforto di studi internazionali che hanno ad esempio confermato la reattività al Saccharomyces cerevisiae nella malattia di Crohn (significa che c’è una forte componente dovuta ai lieviti e alle sostanze fermentate).
Più di recente due studi effettuati su persone malate di malattia di Crohn hanno confermato non solo che c’è una forte componente dovuta al cibo, ma che l’analisi delle Immunoglobuline G verso i cibi (come fatto in RecallerProgram) consente di identificare le cause di un aggravamento e di trovare una via che aiuti la guarigione.
Il primo, pubblicato su Digestion, ha precisato che una volta identificati gli alimenti attraverso lo studio delle IgG, l’applicazione di scelte dietetiche connesse con i cibi indicati ha consentito un significativo ed importante miglioramento clinico (Bentz S et al, Digestion. 2010;81(4):252-64. doi: 10.1159/000264649. Epub 2010 Jan 30); il secondo, pubblicato da poco sul Turkish Journal of Gastroenterology, ha analizzato in uno studio pilota l’effetto di riattivazione del Crohn dato da un carico di cibi verso cui esiste una reazione IgG (Unuzismail H et al, Turk J Gastroenterol. 2012 Feb;23(1):19-27). In modo molto interessante questo lavoro ha valutato anche i livelli di calprotectina fecale nei soggetti trattati, scoprendo che la calprotectina si innalza significativamente sia nella astensione prolungata da un alimento (al decimo giorno), sia nel primo giorno di somministrazione e carico, in accordo con le nostre considerazioni sulla necessità di mantenere un rapporto di amicizia col cibo, favorendo il recupero della tolleranza alimentare.
La possibilità di favorire la guarigione si sviluppa usando le stesse modalità con cui stiamo trattando da anni i nostri pazienti, sempre più convinti che la visione evoluzionistica della reazione infiammatoria alimentare sia la strada giusta per capire la reazione al cibo, intendendola come segnale da rieducare e non certo come indicazione di un’avversione verso l’energia che il cibo racchiude in sé.
Grazie a percorsi terapeutici specifici e schemi di trattamento alimentare che facilitino il ritorno ad una alimentazione varia e che consentano il pieno recupero della tolleranza alimentare, anche le malattie infiammatorie intestinali possono diventare una condizione temporanea in cui la consapevolezza nutrizionale aiuta a raggiungere la guarigione.