Anche le bevande light ingrassano e fanno male al cuore
Nei paesi anglosassoni li chiamano soft drinks, per distinguerli dagli hard drinks, cioè dalle bevande alcoliche.
L’antinomia tra hard e soft, in inglese, copre in effetti una gamma vastissima di significati: duro e molle, rigido e flessibile, forte e leggero, aspro e dolce, estremo e moderato. Nel caso delle bevande, hard dovrebbe definire quelle forti, alcoliche, da maggiorenni, potenzialmente dannose; soft quelle leggere, analcoliche, da ragazzi, innocue. Purtroppo quest’ultimo aggettivo sembra sostanzialmente fuori luogo.
Queste bibite gasate, chiamate anche pop, coke o soda, non fanno per niente bene, specie se bevute abitualmente e in quantità superiori a una bottiglietta o una lattina al giorno. Sicuramente un paio di bicchieri di buon vino fanno molto meno male (minorenni esclusi, va da sé).
E’ quanto emerge da un interessante studio realizzato da un gruppo di ricercatori dell’Università di Boston e pubblicato sull’ultimo numero di Circulation, la prestigiosa rivista scientifica della American Heart Association (R Dhingra et al, Circulation 2007 July 23, first published online).
I medici bostoniani hanno seguito per quattro anni una popolazione di circa 9.000 persone, uomini e donne di mezza età, che hanno sottoposto a osservazione e a esami clinici per tre volte: all’inizio, a metà e alla fine dello studio. I dati che hanno raccolto sono oltremodo significativi.
In una “istantanea” scattata proprio all’inizio del periodo di studio, è risultato che le persone abituate a consumare una o più bibite soft al giorno presentavano una prevalenza della sindrome metabolica del 48% superiore a quella dei loro coetanei che ne bevevano meno di una.
Nell’osservazione di lungo periodo è inoltre risultato che, tra le persone che non presentavano la sindrome metabolica all’inizio dello studio, quelle che consumavano una o più bibite soft al giorno avevano un rischio di svilupparla nei quattro anni successivi del 44% più alto di quello del gruppo che potremmo definire dei “non bevitori” o dei “bevitori non abituali”.
La sindrome metabolica non è affatto una malattia soft come le bevande in questione. Si tratta di un insieme di fattori di rischio che predispongono a disturbi cardiovascolari e al diabete di tipo 2. I sintomi che contribuiscono a definirla sono: eccessiva circonferenza della vita, pressione sanguigna elevata, alti livelli di trigliceridi e bassi livelli di colesterolo “buono”, rapida crescita dei livelli di glucosio. La presenza di tre o più di questi sintomi segnala un allarmante fattore di rischio di sviluppare diabete o disturbi cardiovascolari.
Ciò che ha più sorpreso gli studiosi non è tanto il fatto che queste bevande cosiddette soft siano potenzialmente dannose, quanto piuttosto la pressoché assoluta equivalenza, in termini di dannosità, tra bibite normali e dietetiche. Questo risultato inatteso esclude l’ipotesi che il principale imputato sia lo sciroppo zuccherino presente in elevate quantità nelle bibite non dietetiche.
Per spiegare la dannosità di queste bevande, gli studiosi hanno allora avanzato un’altra ipotesi: che il loro sapore dolce predisponga il palato a mangiare prevalentemente cibi dolci, scatenando in questo modo una sorta di “corsa allo zucchero”. Si tratterebbe quindi di una specie di “riflesso condizionato” di tipo metabolico, che ci riporta al pensiero altri tipi di coinvolgimento psichico nel fenomeno dell’ingrassamento, come l’importanza dei legami sociali o delle convinzioni.
Occorre infatti osservare che negli Stati Uniti è uso comune, e non soltanto tra i più giovani, bere questi soft drinks pasteggiando, come fossero acqua. E purtroppo questa abitudine si va diffondendo ormai anche in Europa.
E’ piuttosto difficile immaginare di bere una soda o una coke mentre si mangia qualcosa di sano e di buono, come un piatto di pasta alle melanzane o un pesce arrosto. Più adatto un piatto di patatine fritte seppellito sotto una valanga di ketchup.
Il soft drink porta dritto al fast-food. E l’effetto è hard.