COVID 19. Contagiosità e complicanze aumentate da zuccheri e glicazione
Un gruppo di ricercatori statunitensi della Harvard Medical School e della Jolla University ha pubblicato in ottobre 2020 su Cell Host & Microbe i risultati di uno studio sulle modalità con cui il virus SARS CoV-2 entra nelle cellule umane, infettando l’organismo e determinando poi i successivi danni patologici tipici del COVID-19 (Zhao P et al. Cell Host Microbe. 2020 Oct 7;28(4):586-601.e6. doi: 10.1016/j.chom.2020.08.004. Epub 2020 Aug 24).
Dal loro lavoro, estremamente documentato, emerge che è la glicosilazione (cioè la presenza di residui zuccherini) a rendere possibile l’infezione del virus, facilitando le complicanze successive. Un tema importante perché la glicosilazione è molto spesso presente quando è elevata la glicazione, dovuta alla ssunzione individualmente eccessiva di zuccheri.
Si tratta di una conoscenza che può aiutare chiunque a fare scelte alimentari più consapevoli per difendersi, perché la glicazione è dovuta a un uso ripetuto o eccessivo degli zuccheri e può quindi essere modificata una volta che ne siano state comprese le cause.
Questa ricerca può avere dei risvolti di fortissimo impatto clinico attuale e futuro per almeno tre motivi:
- la proteina spike (quella con cui il virus del Covid entra nelle cellule umane) deve essere glicosilata dalla presenza di radicali derivanti dal metabolismo di glucosio e fruttosio per potere entrare nella cellula e iniziare la sua attività di replicazione;
- il recettore ACE2 (quello attraverso cui il virus si aggancia alla cellula umana) deve pure essere “glicosilato” per poterne consentire il passaggio;
- la presenza di fattori di glicazione e di glicosilazione sul virus può creare uno schermo protettivo nei confronti degli anticorpi, rendendo in un certo senso inattivi anche gli eventuali anticorpi sviluppati.
La presenza di alcuni fattori di glicazione è, in piccola misura, fisiologica, ma l’alimentazione può determinare un incremento dei fattori di glicazione a causa di zucchero, fruttosio, alcol e polioli utilizzati nella propria dieta.
In pratica quindi si può comprendere perché i soggetti con diabete o con iperglicemia non controllata hanno un tempo di degenza da Covid decisamente più elevato di chi abbia la glicemia controllata e hanno, purtroppo, un indice di letalità marcatamente più alto, come descritto sul Journal of Diabetes and Science Technology.
Con l’evolversi delle conoscenze sul Covid-19 si sta comprendendo che anche le complicanze polmonari possono essere accentuate dalla glicazione, attraverso il coinvolgimento dei RAGE (recettori dei prodotti finali di glicazione o, in inglese, Receptor for Advanced Glycation End-products), come ben descritto su Inflammation Research nel luglio 2020.
Quindi diventa fondamentale capire quanto sia importante la glicazione nella prevenzione del Covid e delle sue complicanze. Ho già scritto nell’articolo “Covid, influenza e prevenzione invernale” che lo studio dell’infiammazione da alimenti e della glicazione, e il loro controllo, sono parti rilevanti della prevenzione.
Per avere un’idea di quanto valga l’alterazione della glicemia nella difesa dalle complicanze del Covid, è bene sapere che nel Regno Unito si è visto che in relazione all’età, l’indice di letalità da Covid per i diabetici varia da 2 a 6,5 volte l’indice di letalità della popolazione normale.
Oggi più che mai, la prevenzione del Covid dovrà tenere conto anche dei livelli di infiammazione da alimenti e della infiammazione da zuccheri, due delle più importanti forme di infiammazione alimentare, che possono essere misurate efficacemente con il test PerMè, con il Glyco Test e con il Recaller 2.0 Test. Sono alcuni degli strumenti che nel centro SMA in cui lavoro, tutto lo staff medico utilizza per ottimizzare la salute dei pazienti che ci ricercano.
Lo studio descritto in questo articolo rafforza ancora di più la necessità di attenzione alla glicazione alimentare e segnala che in attesa di una copertura vaccinale efficace (e probabilmente anche per consentire la sua efficacia), il rapporto individuale con la infiammazione dovuta agli zuccheri potrebbe essere molto più rilevante di quanto finora considerato.