Quando il medico sa curare con il cibo (prima parte)
Questa serie di due articoli riprende l’intervista che mi è stata fatta nell’agosto 2022 dal dottor Marco Lombardozzi, per un riferimento scientifico sulla nutrizione da inserire nella newsletter della rivista che dirige.
Per l’interesse e l’attualità dei temi trattati, Eurosalus riprende in ogni articolo due delle domande proposte con le relative risposte.
Domanda: Ci sono differenze tra l’alimentazione di 50 anni fa e quella di oggi? In caso affermativo, la situazione è migliorata o peggiorata?
Sicuramente sì. Ci sono grandi differenze che coinvolgono non solo produzione, conservazione e qualità degli alimenti ma anche la comunicazione che viene fatta sul cibo e le abitudini di consumo che ne derivano. Molti di questi cambiamenti determinano azioni dirette sulla salute e possiamo trovare sia variazioni in meglio che in peggio.
Per il nostro gruppo di ricerca (GEK Lab) che da anni studia gli effetti immunologici e infiammatori dell’alimentazione nell’organismo, la possibilità di misurare specifici biomarcatori che si modificano in un tempo relativamente breve aiuta a leggere in modo più immediato e diretto le azioni degli alimenti e degli zuccheri sulla salute, consentendone la indispensabile visione sistemica.
Per meglio capire “il bene e il male” dei cambiamenti intervenuti, senza essere esaustivo, propongo subito alcuni esempi che sono stati sicuramente migliorativi.
Per la tutela della sicurezza alimentare, sono stati fatti passi da gigante. Basta pensare al fatto che ormai le sofisticazioni alimentari sono diventate difficili da gestire su vasta scala (e per anni ai primi posti ci sono stati il pane e l’olio di oliva). Le contaminazioni alimentari sono ricercate attivamente e tracciate in tutta la filiera produttiva. Anche il solo sospetto di una contaminazione tossicologica o batterica porta al ritiro di interi lotti di produzione che minimizzano i potenziali effetti dannosi sulla salute.
Nel mercato delle carni, la legislazione europea impedisce l’uso di ormoni (anche di quelli che poi spariscono) e infatti, per fare un esempio, le carni che arrivano dagli USA sono pochissime perché le loro regole produttive sono decisamente più “liberali” delle nostre e quasi sempre il loro prodotto non corrisponde alle regole di salute idonee per la popolazione europea. Un altro esempio è quello della riduzione dei nitrati presenti nelle carni conservate. Il cambio di tecnologia produttiva ha consentito di ridurre ai minimi termini l’uso di questi conservanti potenzialmente tossici e di consentire l’uso di salumi e carni conservate infinitamente meno problematici di quelli di 50 anni fa.
Le tre forme di infiammazione correlate al cibo. Una evoluzione scientifica che coinvolge tutti
Poi però ci sono molti aspetti critici e, anche qui, senza essere esaustivo, basta considerare la crescita della quantità di zucchero pro capite, la preparazione di cibi super raffinati, l’abuso dei grassi vegetali idrogenati, la minore utilizzazione di cereali integrali e l’impiego di coltivazioni estensive che garantiscono maggiori quantità di raccolto ma una minore presenza di sali minerali nei cibi e il possibile ritrovamento di residui di pesticidi o di fitofarmaci nella produzione alimentare.
Basti pensare che dagli 8 chili pro capite di uso annuo di zuccheri alimentari nel 1950 si è passati ai 30-32 di media per questi ultimi 10 anni. Senza considerare i possibili eccessi zuccherini dati da frutta e alcolici.
Questo ha portato ad un incremento della prevalenza diabetica che è ormai classificato come “pandemia diabetica”.
Nel 2018 poi, il BMJ ha definito per la prima volta il rischio patologico per la assunzione di cibi ultra processati o iper raffinati. Lo studio è stato confermato sul JAMA nel 2019, definendo che un aumento del 10% del consumo di questi alimenti porta ad un aumento del 14% della mortalità da qualsiasi causa.
Tra i cibi iper processati sono inclusi bevande dolci e gasate, snack dolci o salati impacchettati, gelati industriali, cioccolato, caramelle, pani e dolci industriali, margarine, biscotti industriali, torte e mix per torte industriali, “cereali” da colazione (ricostruiti), bevande energetiche, bevande di frutta con zuccheri aggiunti o dolcificanti artificiali, carni o pesci ricostruiti (come würstel o certi tipi di salsiccia), zuppe istantanee e molti altri.
Non è la preparazione industriale (che può anche fornire prodotti sani e relativamente puliti) ad essere correlata al rischio di malattia, ma la iper-processazione che comporta passaggi chimici, trattamenti, colorazioni e quant’altro.
Domanda: Le persone sono disorientate sulle scelte alimentari, anche perché il battage pubblicitario li condiziona molto. Come possiamo aiutarli a districarsi tra le informazioni dei mass media?
Basta un passaggio su qualsiasi social per leggere una particolare affermazione (tipo: “i carboidrati fanno male”) e a distanza di pochi secondi un’affermazione opposta (tipo: “i carboidrati fanno bene”). Nessuna delle due affermazioni è corretta.
Uno dei motti del nostro gruppo di lavoro è infatti “Non esiste cibo nemico”, perché con il giusto equilibrio chiunque può concedersi anche qualche sgarro “pazzerello” valorizzando la compagnia, l’amicizia, la socialità e il gusto, soprattutto se sta guadagnando “buoni sconto” per la salute attraverso una impostazione nutrizionale adeguata.
Faccio un esempio preciso riferendomi alla malattia di Crohn (una delle IBD o Malattie Infiammatorie Intestinali); questa malattia in Europa può dipendere anche da una relazione infiammatoria con particolari gruppi alimentari (come Frumento, Lieviti e Latte), mentre in Cina può dipendere da Soia, Riso e Mais, come spiegato su PLoS One fin dal 2014.
Questo significa che non è né colpa del riso né colpa del glutine (cui oggi vengono spesso attribuite illusorie virtù “malefiche”) ma della modalità ripetitiva con cui una persona se ne nutre. Come scrivevo prima “Nessun cibo è nemico”.
Infatti, tutte le istituzioni più importanti a livello sanitario mondiale battono sulla necessaria varietà della dieta, sul fatto che non si mangino sempre gli stessi alimenti e che seguendo possibilmente la stagionalità alimentare si mangi in modo variato e completo senza inutili e pericolose eliminazioni (con l’eccezione, ovviamente, di celiachia e di gravi allergie IgE mediate).
C’è un’altra regola basilare legata alla quantità di proteine necessaria per ogni organismo che è di almeno 0,83 g di proteine per chilo di peso corporeo. Dopo i 60 anni questo valore sale anche a 1,2 grammi per chilo.
Ricordando che un etto di pesce contiene 22-24 g di proteine (non 100 come molti credono) e che i legumi, quando sono preparati, ne contengono solo 7 g ogni 100, cioè la metà del pane ben fatto, e quindi possono solo contribuire al raggiungimento della quota necessaria per fare funzionare correttamente l’intero organismo. La quantità di proteine (ad esempio circa 60 g per una giovane donna di 65 kg di peso) deve essere distribuita nei tre pasti in modo uniforme.
Una volta definito che l’alimentazione deve essere varia e che deve bilanciare sempre, in ogni pasto (prima colazione compresa), carboidrati, proteine e fibra (verdura e frutta), come spiegato dalla Harvard Medical School fin dal 2010, il resto deve essere basato sulla personalizzazione.
Come ho detto all’inizio, oggi è possibile evidenziare specifici biomarcatori dell’infiammazione (il BAFF ad esempio) e della glicazione per capire come ogni persona debba nutrirsi. Il concetto di Medicina di Precisione deve essere declinato attraverso una Medicina e una Nutrizione personalizzate.
Io ad esempio, che personalmente ho una genetica sicuramente sfavorevole con predisposizione al diabete e all’accumulo di peso, posso vivere una vita “serena” attrraverso la verifica dei miei valori di glicazione (quindi del Metilgliossale – MGO e della percentuale di albumina glicata) e intervenendo sulla mia dieta quando questi si alterano eccessivamente.
Conoscere come il mio organismo risponde alla assunzione di carboidrati, di zuccheri, di alcol e di fruttosio (quindi anche di frutta), mi consente di nutrirmi nel modo più adeguato a controllare la risposta infiammatoria e di evitare i danni generati dai radicali di glucosio e fruttosio.
La glicazione non enzimatica, dovuta all’eccesso individuale di assunzione di glucosio, fruttosio, alcol, polioli e all’eccesso di carboidrati raffinati è stata riconosciuta, negli ultimi 15 anni, come una delle più importanti cause di alterazione delle proteine e del DNA oltre che di ossidazione e di infiammazione delle strutture organiche.
La glicazione, determina anche una specifica azione di alterazione del metabolismo con induzione di insulino-resistenza, quasi a creare un circolo vizioso relativo alle sostanze a veloce assorbimento e assimilazione.
Il suo studio e la valutazione delle sue oscillazioni sono quindi una nuova chiave di lettura della nutrizione che consente una assoluta personalizzazione nutrizionale e una vera azione preventiva e terapeutica nella maggior parte delle malattie croniche più diffuse.
La seconda parte di questa intervista sarà pubblicata la prossima settimana, sempre su Eurosalus.
(L’intervista originale può essere ripresa a questo link).