Zuccheri, uso inconsapevole, abuso e dipendenza. Come uscirne
Nel corso degli ultimi anni, si è compreso che alla base della ricerca alimentare ci sono anche componenti biochimiche e neurologiche che per alcuni alimenti, come lo zucchero, si sono dimostrate capaci di indurre dipendenza.
Per lo zucchero e gli zuccheri, in particolare, l’attivazione della ricerca zuccherina non dipende solo dalla sostanza in sé ma anche dal semplice gusto dolce.
Che si tratti di zucchero bianco, di zucchero di canna, di miele, di dolcificante artificiale, di stevia o di polioli, l’effetto di stimolo alla ricerca ripetuta è più o meno lo stesso, anche se le quantità utilizzate possono avere, su base individuale, un diverso effetto (valutabile attraverso i test di GEKLab).
Già conoscere dove si trovano gli zuccheri, anche quelli invisibili e nascosti, può aiutare la consapevolezza della loro assunzione, troppo spesso assente. Basti pensare alla percezione di “cibo sano” che hanno ad esempio i “succhini” per i bambini, ricchi di fruttosio privo di qualsiasi fibra, che possono, all’opposto, avere effetti sulla salute rilevanti e indurre ricerca successiva di altri carboidrati raffinati o dolci.
Questi prodotti creano nuovo appetito e una ricerca compulsiva di cibo, che può allontanare il benessere fisico e psichico.
La dipendenza è definita oggi come un “disturbo da uso di sostanza” (alimentare o farmacologica che sia) e la Associazione Psichiatrica Americana precisa che si tratta di una condizione complessa, una malattia neurologica che si esprime con l’uso compulsivo di una sostanza, indipendentemente dalle conseguenze negative che possa avere sull’organismo.
Per anni la dipendenza da zucchero è stata messa in discussione anche per l’intervento delle lobby produttrici, attentissime a questo tipo di comunicazioni, e infatti nel 2016 sull’European Journal of Nutrition, un gruppo di ricercatori dell’Università di Cambridge (UK) ha spiegato che la dipendenza era scientificamente evidente nell’uso eccessivo e intermittente degli zuccheri (abbuffate ad esempio, o le semplici aperture della dispensa) mentre era meno evidente nell’uso moderato.
Poi nel 2018 un gruppo di ricercatori guidato dalla Mount Sinai University di New York, ha pubblicato su Frontiers in Psychiatry una serie di considerazioni che caratterizzavano per lo zucchero ben 5 delle caratteristiche tipiche delle 11 usate per definire una possibile dipendenza: uso di quantità più elevate e per un tempo più lungo di quanto inizialmente previsto, desiderio incontrollabile, uso nonostante il pericolo conosciuto, adattamento alla quantità e sindrome da astinenza.
A fine 2021, sull’International Journal of Environmental Research and Public Health, inizia finalmente una considerazione che sposta il tema dalla accettata considerazione di “possibile” dipendenza da zuccheri alla necessità di intervento pubblico di salute pubblica sul tema dell’uso delle sostanze dolci e dolcificate.
Che lo zucchero possa determinare dipendenza, per un uso ripetuto, è diventato un dato con evidenze scientifiche precise.
Il meccanismo fisiologico e antropologico della dipendenza dalla sostanza dolce o zuccherina era comunque già abbastanza comprensibile: un uomo che nel paleolitico si fosse trovato davanti qualcosa di altamente energetico e di facile assunzione (la sostanza zuccherina) doveva poterne assumere il più possibile in maniera produttiva, creando tutt’al più scorte (grasso) riutilizzabili in tempi successivi. Ecco che la dipendenza da zucchero ha avuto un suo significato nell’evoluzione, salvando i nostri antenati che possedevano tale caratteristica fisiologica e probabilmente con base genetica di dipendenza dalle sostanze dolcificanti, rispetto a coloro che non l’avevano.
Allora lo zucchero e il dolcificante in generale dovrebbero essere resi alimenti quantomeno di dubbia utilità nella visione comune della popolazione. La tutela del cittadino parte dalla tutela della sua salute e la prevenzione parte dai messaggi che al cittadino vengono dati e mandati, dall’istruzione e dall’informazione.
Che l’eccesso individuale di zucchero o di sostanze analoghe (fruttosio, alcol, polioli, carboidrati raffinati) possa essere fortemente dannoso per l’organismo è stato spesso descritto su queste pagine con articoli sulla variabilità glicemica, sulla steatosi epatica o fegato grasso anche degli adolescenti, e sulle tre diverse forme di infiammazione da cibo oltre che ovviamente su diabete, obesità, pre-diabete e alterazioni della funzione tiroidea.
Nel centro SMA in cui lavoro proponiamo sempre dei percorsi terapeutici che consentono di utilizzare gli zuccheri in modo personalizzato (grazie ai risultati di test come PerMè e Glyco Test), spiegando attentamente che nessun cibo è nemico, neanche gli zuccheri, ma che la personalizzazione consente di definire le quantità che ognuno può utilizzare e la sua giusta frequenza. I meccanismi di evitamento alimentare (ARFID) sono sempre controproducenti.
Spesso il supporto psicologico per affrontare la dipendenza da zuccheri è utile. La dottoressa Paola Dordoni ha scritto in questo senso un importante articolo dal titolo “Selettività alimentare: quando il cibo nemico mi controlla”, che può essere di supporto a chi voglia approfondire questo aspetto.
Le basi fisiche e nutrizionali per uscire dalla dipendenza si basano su almeno 4 punti di intervento.
Tra le sostanze che spesso suggeriamo ci sono i sali di cromo (regolatori del metabolismo degli zuccheri) e l’inositolo (fine regolatore della gestione dell’energia e di supporto al tono dell’umore). Prodotti come Glucontrol base (1 al giorno a lungo), Inositox (2 tavolette al giorno) o InoSAMe Brain (1 al dì) sono utili complementi alla personalizzazione nutrizionale.
Spesso i nostri pazienti scoprono di sentirsi meglio, più liberi, più sereni, e di non cercare più compulsivamente alimenti dei quali prima sentivano la mancanza, magari anche senza rendersene conto. Un cammino verso salute e consapevolezza guidato da solide base razionali che coinvolgono positivamente anche la parte emotiva.