Obiettivo Slow Food: la biodiversità che aiuta il mondo a sopravvivere
Nuovo giro ad Expo visitando numerosi padiglioni. Ho assaggiato il tè della Taiga russa (e anche un piccolo sorso di Vodka) e ho ripercorso nel padiglione dell’Oman un percorso di umanizzazione delle risorse ambientali. Il Sultanato dell’Oman propone una via alla corretta distribuzione delle risorse e alla conservazione dell’acqua che ha radici millenarie e potrebbe diventare esempio anche per l’oggi.
Tutti i padiglioni, alcuni nel bene e altri nel male, invitano a una riflessione sul cibo, sulla sostenibilità e sulla nutrizione.
Il padiglione Food 2.0 degli Stati Uniti è un inno alla sola modernità e all’aumento della produzione. Indicativa la loro comunicazione sull’aumento della produzione della Quinoa. L’elemento discriminante per dire che sia una cosa buona è solo l’aumento delle vendite e l’aumento dei prezzi. L’attenzione alle risorse ambientali è considerata all’ultimo posto e figura nelle comunicazioni e nelle relazioni quasi solo per necessità di essere almeno un po’ “politically correct”.
Nel padiglione statunitense, l’unico riferimento al rispetto del “local” arriva dalla comunicazione di uno chef vestito in stile country (mentre il 98% degli altri comunicatori sono in giacca e cravatta), che da un visore elettronico dice che per la sua cucina, nel ristorante, usa cibi a “chilometro zero” e che va rispettata la produzione locale. La forma almeno è rispettata…
Il contrasto più forte invece si percepisce verso il fondo del Decumano, vicino all’ingresso Est, quello connesso con l’area di parcheggio di Roserio.
Ci sono le tre casette di legno di Slow Food e il fatto di essere al termine dell’infinito Decumano, con una posizione architettonicamente staccata dal resto dei padiglioni, rende i tre stand Slow Food (che non c’entra nulla con Eataly, come molti invece pensano) idealmente lontani dal resto della struttura di Expo.
È un peccato, perché lì ho vissuto un’esperienza conoscitiva potente, che mi sento di consigliare a chiunque.
In realtà i tre stand circondano un’area destinata alla produzione di ortaggi che chiunque può vedere nel loro splendore. Quella stessa biodiversità raccontata attraverso le diverse specie vegetali che arrivano a finire nel piatto, è raccontata anche all’ingresso della prima casa Slow Food da una serie di filmati e di fotografie che rappresentano la biodiversità animale correlata con la nutrizione.
Anche i più esperti resteranno stupiti dal numero di razze differenti localizzate nelle diverse aree del mondo che contribuiscono alla nutrizione umana.
Tra capre, mucche, pecore e maiali di ogni tipo genere e colore, il pensiero si perde nella percezione di habitat diversi corrispondenti a diverse modalità di vita di diverse popolazioni. Un patrimonio da conoscere e rispettare.
L’itinerario del primo stand consente poi di ammirare una serie di fotografie, presentate su tavolette di legno ribaltabili, che rappresentano su un lato una modalità industriale di preparazione di un certo cibo e dall’altra parte una modalità ecosostenibile, umana, più rispettosa dei cicli naturali. Il contrasto è talvolta fortissimo e può portare a spunti di riflessione importante nei confronti della scelta alimentare e sociale che viene fatta sul cibo.
Proseguendo nel percorso di conoscenza si è immediatamente attratti da una enorme statua rappresentante una immagine pseudoumana completamente costituita da chicchi di mais.
La statua è la scusa per poter discutere di una produzione che è diventata la massima produzione agricola del mondo e che è tragicamente correlata, almeno dal punto di vista epidemiologico, con l’aumento dell’obesità mondiale.
Spesso sento persone che di fronte alla indicazione di una reattività alimentare al mais o ai suoi derivati dicono di non avere mai mangiato pop-corn, pannocchie o polenta (le forme più tipicamente considerate correlate al mais, che valgono meno dell’1% dei consumi), senza sapere che gli animali d’allevamento vengono quasi integralmente nutriti a mais (80% della produzione mondiale è usata per questo scopo) e che il 20% della produzione di mais mondiale è utilizzato per la produzione di derivati soprattutto zuccherini come il HFCS (High Fructose Corn Syrup), che arrivano a costituire la parte dolce di snack, merendine, bibite, sughi, salse e un’infinità di altri prodotti industriali.
La relazione tra HFCS e obesità è strettissima. Dovunque questo sia utilizzato come sostanza dolce, esiste un incremento di obesità tra la popolazione. La preparazione di HFCS incrementa la velocità di assorbimento delle calorie e aumenta le calorie disponibili all’interno di cibi normalmente più poveri.
La frase di Michael Pollan presentata in una delle fotografie che correla questo articolo (“Se è vero che siamo quello che mangiamo, allora siamo Mais”), è emblematica.
Dando spazio solo a culture intensive di singoli cereali si rischia di perdere l’importante valore evoluzionistico della diversità e della sostenibilità, che garantiscono gusto e rispetto di nicchie biologiche di cui il mondo ha disperatamente bisogno per sopravvivere.
Basterebbe la visita di questa sola area per passare più di un’ora con i propri studenti e con i ragazzi per raccogliere racconti, storie, dati e valutazioni e per interiorizzare immagini e filmati che aiutano a capire il valore di questo processo per la nutrizione di ogni singolo individuo e dell’intero pianeta.
Il percorso prosegue poi in una delle altre “casette” Slow Food dove è possibile acquistare alcuni prodotti e degustare (costo medio, non basso) alcuni dei prodotti correlati con i presìdi di produzione diffusi in tutto il mondo.
Ho assaggiato così tre tipi di formaggi italiani e un formaggio Gouda olandese preparato con latte crudo, con un gusto assolutamente diverso da tutti i formaggi olandesi mai assaggiati finora.
Mi ha fatto molto piacere che le gallette estruse biologiche di mais proposte durante la degustazione fossero le stesse che quest’anno abbiamo suggerito nei pacchi per la scoperta di nuovi cereali della fondazione Rava. Si tratta di mais prodotto biologicamente da varietà cresciute nel nostro paese (mais rosso ottofile ad esempio) o di gallette di riso integrale.
La ricchezza di questa esperienza nasce anche dalla possibilità di parlare con gli addetti agli stand.
Giovani e meno giovani sono disponibili a parlare, raccontare la loro esperienza di lavoro individuale, discutere di alcuni dei temi proposti dai padiglioni. Arricchire l’esperienza del tatto, del gusto e della vista, miscelati con l’aspetto della conoscenza e del confronto con le idee di chi lavora in quest’ambito, è di estremo interesse.
Sono fermamente convinto del valore fieristico di Expo, legato alla commistione di aspetti culinari, culturali e sociali.
Il mio è un invito a tutti, per aggiungere quest’esperienza di riflessione a quella ludica e giocosa che spesso si percepisce camminando in Expo tra Cardo e Decumano.