Il sorriso del Dr. Jankovic
Il Dr. Momcilo Jankovic, pediatra emato-oncologo, responsabile dell’unità operativa day hospital di ematologia pediatrica dell’Ospedale San Gerardo di Monza, è il medico che con il suo sorriso sincero e aperto compare, dietro una piccola paziente dall’incedere sereno e sicuro, sulla copertina del libro “Andrea ti aspetto a San Siro, viaggio fotografico dal buio alla luce”.
La sua firma appare anche accanto ad alcuni degli interventi scritti per “Magica Cleme”, terapia della felicità, il secondo libro pubblicato dalla Proedi Editore con il duplice intento di sostenere l’operato delle associazioni che collaborano con la Clinica Pediatrica di Monza e sensibilizzare l’opinione pubblica.
Per capire meglio quale mondo si nasconda dietro queste due pubblicazioni, abbiamo parlato con il dottor Jankovic alla fine di una giornata di quelle intense, in cui anche il tempo per una telefonata va trovato e valorizzato al massimo. Al punto che ogni risposta è un concentrato di informazioni, sentimenti ed esperienza. Un fiume in piena, impossibile da arginare…
«A partire dagli anni ‘80, l’alleanza terapeutica, cioè quella comunione di intenti che gli operatori sanitari da una parte e le famiglie e i volontari dall’altra portano avanti con un unico obiettivo ideale che è quello di poter guarire il maggior numero di bambini possibile, è diventata fondamentale. Oggi circa il 70-80 per cento dei bambini che si ammala di tumore può guarire, non per caso, ma per quello che è stato fatto. E guarire vuol dire lasciarsi alle spalle l’esperienza della malattia e avere una reintegrazione psicologica e sociale equivalente a un soggetto normale nell’ambito della nostra società, quindi una guarigione, secondo i criteri dell’OMS, completa.
L’espressione di alleanza terapeutica è alla base di questo successo, non soltanto per l’apporto economico che le associazioni portano, indispensabile nel promuovere la ricerca che sappiamo avere delle grosse necessità, ma soprattutto per dare a noi operatori sanitari la credibilità di quello che viene fatto, la trasparenza. Questa si è rivelata l’arma in più che, soprattutto in campo oncologico, è stata fondamentale e continua a esserlo.
Magica Cleme , per esempio, è un’associazione nata dalla morte di una bambina i cui genitori non hanno voluto disperdere le loro energie. La loro voglia di continuare in memoria della figlia la lotta alla malattia ha fatto sì che crescesse il desiderio di poter aiutare i bambini e le loro famiglie durante il percorso di cura con iniziative atte a rendere il clima il più sereno possibile, più gioioso. E questa è un’altra arma in più perché il bambino sereno accetta o tollera meglio le cure che possono avere una efficacia sul piano della tossicità o della tolleranza migliore rispetto a chi in maniera depressa, arrabbiata o triste vive questa esperienza».
«Penso sempre all’idea dei vasi comunicanti. Si è in grado di dare tanto ai bambini e alle loro famiglie, ma si deve poter ricevere altrettanto, altrimenti dopo una o due esperienze si crolla. Bambini e famiglie possono insegnare tanto perché attraverso un linguaggio non necessariamente verbale (gesti, comportamenti…) sono in grado di farci vivere una realtà non comune, quella della sofferenza, del dolore, della paura, con l’obiettivo della guarigione o comunque della qualità della vita. Questa ricchezza dipende anche dalla capacità dell’operatore sanitario (medico o infermiere) di saper accompagnare questi pazienti, il che vuol dire dedicare tempo, non annullarsi, ma cercare di creare (e questo dovrebbe succedere con tutti i pazienti, non solo quelli oncologici) quel feeling, quella comunione di intenti e vicinanza di necessità che crea poi quella comunicazione non verbale che è senz’altro la più ricca.
Parlare con le famiglie non è facile perché ovviamente c’è un certo scetticismo, una certa difficoltà ad accettare subito quello che andiamo a proporre. Sono persone colpite dallo shock della malattia grave, potenzialmente mortale, e se è difficile parlare con loro, lo è ancora di più con i bambini che d’altra parte devono essere in qualche modo coinvolti, e non in maniera banale, perché il percorso che li aspetta è lungo, come minimo due anni di cure per la maggior parte delle forme tumorali e delle leucemie in particolare.
Aprire un dialogo anche con loro li aiuta ad avere un ruolo attivo e, spesso, positivo, questo non significa per forza scendere in quei dettagli che spaventano un adulto e a maggior ragione un bambino, come elencare gli effetti collaterali o le tossicità, ma rispondere con determinazione e serenità anche a quelle domande particolari che il bambino o la famiglia possono fare. Non è una lezione di vita, è un modo di vivere insieme la malattia.
E qui sta l’unicità del rapporto con la famiglia e il bambino: non c’è uno standard di comportamento per tutti, bisogna adattarsi a necessità sociali, psicologiche e comportamentali che ogni famiglia si porta. È un percorso più o meno lungo da fare insieme, con risvolti e diversificazioni assolutamente peculiari. Non so se mi sono spiegato…»
«La riassumo molto semplicemente: è la nostra testa. Quanto più il bambino è piccolo e spontaneo, quindi meno profondo come ragionamento pur avendo una sua assoluta dignità comportamentale, tanto migliore è la tolleranza alle cure e il saper affrontare il problema malattia. Tanto più il bambino cresce e si avvicina all’adulto dove la componente cognitiva aumenta e subentra la voglia di capire al cento per cento quello che sta succedendo e di rendere consequenziale quello che viene fatto, tanto più si creano problemi maggiori nell’accettazione. Questo se vogliamo fa parte della natura.
Come pediatra posso dire che una delle fasi più delicate della pediatria è quella dell’adolescenza quando c’è una certa instabilità emozionale del bambino che sta crescendo: c’è un fisico che si avvicina di più a quello dell’adulto, ma c’è una testa che risente ancora di quella che è la fase di maturazione che manca. Per questo tanto più cresce una persona, quanto maggiore è la preoccupazione e anche la difficoltà di abbinamento con il medico e il personale. Ma non per questo è meno intenso e importante per noi».
«Assolutamente no. La cosa migliore per un medico è quella di fondere le due cose. Io devo avere quella rigorosità scientifica che deve andare al di là dell’emozionalità. E questo lo dico perché quando un genitore mi chiede se il bambino che non può guarire ce la farà, viene fuori l’uomo che dice: “certo che credo anche ai miracoli o a quello che uno sente e lascio aperta questa speranza, ma come uomo di scienza devo credere ai numeri e attenermi a determinate statistiche”.
E se la statistica parla in modo negativo, io questo devo esplicitarlo bene. Quello che le persone cercano è proprio questo: un connubio tra cuore e ragione. Io dico sempre che ogni paziente ha diritto a un’apertura, una strada anche piccola, nel momento in cui le cose non dovessero andare bene, che gli consenta di andare avanti, allora l’obiettivo in quel caso si sposterà dalla quantità, cioè la guarigione, alla qualità della vita. Ecco perché sostengo che la qualità della vita riguardi il cento per cento dei soggetti».
«La strada è su due binari. Sulla strada scientifica purtroppo c’è ancora molto da fare. I progressi sono stati grossi in questo ultimo ventennio, ma progressi ulteriori richiedono sperimentazioni che sappiamo essere molto lunghe. Per esempio, per valutare se un protocollo nuovo di terapia sia migliore del precedente ci vogliono almeno dieci anni.
Per quanto riguarda invece l’aspetto qualitativo, cioè assistenziale, che torno a dire per me è davvero un’arma in più, c’è sicuramente ancora da lavorare, ma sono convinto che con le associazioni e le organizzazioni già in atto non siamo lontani da traguardi importanti. Adesso a Monza c’è questo progetto di creare, con il Comitato Maria Letizia Verga, anche l’Istituto Maria Letizia Verga: un percorso dalla nascita alla crescita del bambino, sempre visto dall’aspetto delle malattie oncologiche, dove si dia spazio alle associazioni per creare momenti ludici, di divertimento, positivi e costruttivi (come una piscina o una palestra) per migliorare e incrementare la qualità della vita durante i ricoveri o nelle fasi di terapia protratte.
«Una cosa molto bella, che è un po’ la mia ambizione: credere in quello che viene fatto da noi medici oncologi e aiutare la gente a essere sensibile a queste problematiche non solo se colpite da queste malattie. Questa è una sfida molto grossa perché ancora oggi mi rendo conto che nonostante tutto quello che è stato detto e fatto in questi anni, un po’ per riluttanza iniziale, un po’ per scaramanzia uno entra in questo mondo soltanto se è colpito in qualche modo in famiglia dalla malattia. Avere invece un’informazione capillare nella quale ci sia anche il cuore (la tecnica non viene quasi mai considerata) è importante.
“Andrea ti aspetto a San Siro”, ad esempio, grazie alle foto di Attilio Rossetti, non è un libro pietistico o che parla solo della leucemia, è un libro che dice che nella nostra società ancora oggi nel 2007 esistono queste realtà e queste malattie nelle quali ognuno di noi può contribuire con poco: nel dare un sorriso, un aiuto che non deve essere necessariamente economico, un sostegno non per forza spirituale, ma un insieme di presenza che faccia da richiamo e da catalizzatore anche per altre persone.
Questo è il concetto di solidarietà che mi piacerebbe fosse molto più vivo nella nostra società. Oggi è ancora confinato a chi sta passando i guai o agli amici del cerchio, ma non alle persone comuni che magari stanno vivendo una loro vita, la più bella possibile, ma che devono riflettere e sapere che esistono delle realtà nelle quali è possibile fare qualcosa di buono tutti insieme».
«Il sorriso deve essere un sorriso vero. Se è stereotipato il bambino se ne accorge al volo. Il sorriso vero è quello che costa fatica, lo dico sinceramente, non è vero che ci si abitua. Ogni giorno per me è una pagina nuova. È vero che l’esperienza ha un suo peso, però il sorriso mi ha permesso di entrare in relazione con le famiglie e i bambini mantenendo quel grado di serenità e professionalità che mi ha permesso di stare vicino a loro in maniera attiva.
I malati in generale e i bambini in particolare hanno bisogno di persone che trasmettano qualcosa di positivo. Una speranza sulla quale lavorare ogni giorno».
di Manuela Florio