Elogio dell’insonnia
L’insonnia è la miglior dimostrazione che le malattie sono generate da noi stessi. Nei ricordi infantili dell’autore il tempo passato ad occhi spalancati diventa uno strumento per possedere e comprendere il mondo.
Nella mia esperienza personale l’insonnia, che ho conosciuto, frequentato e amato soprattutto nell’infanzia e nell’adolescenza, era la manifestazione di un confuso quanto traboccante bisogno di comprensione del mondo e, in primo luogo, di me stesso. Questa comprensione non può essere raggiunta che attraverso una forma almeno rudimentale di autonomia. E l’autonomia, a sua volta, non può essere ottenuta che attraverso la solitudine. Poiché ero un bambino molto accudito, circondato da un amore che non dava tregua, la sola esperienza della solitudine che riuscii a inventarmi fu l’insonnia. Insonnie epiche, di durate eroiche, delle quali mantenni rigorosamente il segreto fino all’età adulta.
Parlo di quel tipo d’insonnia che definirei primaria e che consiste nell’incapacità di (o nella resistenza a) prendere sonno. In seguito ho fatto la conoscenza anche di altri tipi d’insonnia: quella dei risvegli precoci dell’alba, quella dei sogni mortiferi delle tre, quella (la più debilitante) dei sonni spezzettati in briciole di minuti, ciascuna delle quali preceduta e seguita da una briciola di sussultante dormiveglia. Nessuna di queste insonnie secondarie possiede nemmeno un’ombra di quell’avventurosa purezza, di quel senso di assoluto che era connaturato alle mie insonnie primarie dell’infanzia.
Cominciai verso i sei anni, forse prima. Mi mettevano a letto molto presto: le nove, nove e mezza. Non dormivo. Non accendevo la luce. Non tossivo. Se qualcuno entrava nella stanza per controllare la buona qualità del mio sonno, gliela garantivo: chiudevo gli occhi, prendevo un respiro vasto e regolare, accoglievo senza batter ciglio il premio di una carezza, di due baci, di una correzione felpata dei rimbocchi. Un premio che soltanto io sapevo quanto fosse usurpato e, insieme, splendidamente meritato.
Per il resto giacevo pressoché immobile, supino, gli occhi spalancati nella penombra. Consideravo a lungo, quasi spiandola istante per istante, la metamorfosi clandestina degli oggetti. Come mia madre e mio padre, così anche il mobilio era convinto che dormissi. Perciò si abbandonava liberamente alla sua vita notturna, senza alcun sospetto di essere osservato. L’armadio, il lampadario, la scrivania, le sedie, i libri, la cartella di scuola, i miei giocattoli subivano trasformazioni incessanti. Respiravano e, nel moto ritmato del respiro, si gonfiavano e sgonfiavano. Assumevano di volta in volta dimensioni gigantesche e lillipuziane, si cospargevano le membra di strani fiocchi grigi, gemevano, s’illuminavano d’improvvisi lampi, sprofondavano nuovamente nelle tenebre. Era uno spettacolo senza fine.
Fu attraverso questo spettacolo che si replicava dinanzi ai miei occhi ogni notte, con variazioni inattese e inesauribili, che presi consapevolezza di un fatto di straordinaria importanza: il mondo non era come me lo avevano descritto. Sotto la superficie così perfettamente spiegabile e ordinata della realtà si muovevano forze oscure e torbide, che sarebbero risultate del tutto inammissibili, tanto per fare un esempio, alla mia buona maestra Piantelli, tutta rigogliosa di sentimenti caritatevoli e di pregiudizi solidissimi.
L’insonnia fu la mia cattiva maestra, che mi guidò con infinita pazienza (le ci vollero almeno quindici anni e da tre a sette-otto ore di lezione per notte) fuori dalla sconfinata foresta dei luoghi comuni e delle idee ricevute fino a mettermi in grado di costruirmi una mia interpretazione del mondo.
Del resto è fin troppo logico: il mondo è complesso e per capirne qualcosa bisogna tenere gli occhi bene aperti.