Come le riviste scientifiche servono gli interessi delle case farmaceutiche

23 Gennaio 2008
Come le riviste scientifiche servono gli interessi delle case farmaceutiche

Non succede tutti i giorni che una rivista scientifica dica chiaro e tondo che le riviste scientifiche manipolano l’informazione scientifica. Quando succede, si può anche restare un po’ disorientati, come di fronte alla celebre affermazione “Tutti i cretesi sono bugiardi”, pronunciata a quanto si dice da Epimenide, che era di Creta.
Ci si potrebbe insomma domandare se valga la pena di prestar fede a una rivista scientifica nel momento in cui dichiara di far parte di un manipolo di manipolatori.
Per fortuna la rivista in questione è il New England Journal of Medicine, forse la più autorevole testata di medicina del pianeta, ed è quindi con sollievo che ci si sente autorizzati a dare più credito a questo suo paradosso che non a quello, deliberatamente provocatorio, di Epimenide.

L’articolo cui facciamo qui riferimento, pubblicato sull’ultimo numero della rivista, si limita per la verità ad affermare che le riviste scientifiche praticano una “pubblicazione selettiva” degli studi clinici sul successo dei farmaci antidepressivi, influenzando così la percezione della loro efficacia (EH Turner et al, NEJM 2008 Jan 17, 358(3):252-260). Ma non è certo azzardato ipotizzare che questa “pubblicazione selettiva” riguardi altre famiglie di farmaci e, più in generale, altri delicati segmenti del dibattito medico-scientifico (come ad esempio – rovesciando il segno della manipolazione – nascondendo i risultati positivi sull’agopuntura o l’omeopatia).
Per arrivare a questa conclusione, gli studiosi non hanno dovuto far altro che confrontare le ricerche sull’efficacia dei farmaci antidepressivi apparsi in un certo periodo di tempo nella letteratura medico-scientifica con quelli della totalità delle ricerche sullo stesso tema, pubblicate e non pubblicate (e tutte conservate presso un registro governativo degli studi clinici, sotto la responsabilità della FDA – Food and Drug Administration).
Il conto è presto fatto: mentre gli studi pubblicati parlano di una percentuale di successo degli antidepressivi pressoché assoluta (94%), l’insieme degli studi depositati presso la FDA rivela un’efficacia di questi farmaci assai più modesta: il 51% di successi contro il 49% di insuccessi, grosso modo come giocare a testa-e-croce.
E’ dunque evidente che, degli studi con esito negativo, poco più di 1 su 10 ha trovato la via della pubblicazione. Non è ben chiaro se questa “selezione” sia provocata in maggior misura da una vera e propria censura degli editori e dei loro staff di consulenti o da una sorta di autocensura che suggerisce agli autori di questi studi poco favorevoli agli interessi delle case farmaceutiche di lasciar perdere, a scanso di ripercussioni sgradevoli sulle loro carriere e sul finanziamento delle loro ricerche. Più probabilmente sarà una miscela di queste due forme di censura (auto ed etero) a produrre l’effetto che gli studiosi americani hanno misurato.
Un effetto, se è lecito concludere con un pizzico d’ironia, davvero deprimente.