Le parole hanno sempre importanza. Il termine “schizofrenico” va cambiato…
È in corso una discussione scientifica sul termine schizofrenia e sul fatto che per rispetto sociale possa essere modificato.
Si tratta di una definizione che viene percepita dalle persone in modo diverso a seconda del livello di cultura o dell’area geografica.
Per chi la interpreta sul rigoroso piano scientifico il problema non è così rilevante ma la “deriva” sul significato della parola schizofrenia di questi ultimi anni obbliga una riflessione di rilievo e un possibile cambiamento di questo termine, anche se vedremo che non è comunque facile trovare la giusta soluzione.
Segnalare ad una persona una diagnosi di “schizofrenia” piuttosto che di “disturbo di integrazione” non cambia nulla sul piano pratico ma cambia radicalmente nella percezione di chi riceve questa diagnosi.
Medscape ne ha parlato in un interessante articolo da cui riprendiamo alcune considerazioni.
Stiamo attraversando un periodo in cui la definizione di se stessi trova diverse espressioni, ognuna con un significato diverso. Basta pensare alle discussioni sulle diversità di genere e a quante reazioni attirino…
L’ottimo articolo di Medscape richiama un dibattito già in essere dal 2014, riportando alcuni dei tentativi di ridefinizione del termine finora messi in atto.
Ci si deve chiedere cosa possa rappresentare il termine “schizofrenico” per una persona non medica.
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La deriva del significato è simile a quella che è avvenuta per il termine “nevrotico”. Il significato medico di questo termine identifica una persona che sublima in un comportamento quasi obbligato e talvolta compulsivo un trauma pregresso non risolto, ma globalmente è percepito quasi come una comunicazione oltraggiosa…
In una discussione stradale ad un semaforo, sentirsi dare del “nevrotico” rappresenta uno specifico insulto anche se il significato medico è completamente diverso.
Esistono molte situazioni in cui si sviuluppano questi cambi di percezione del significato. Un esempio chiaro è fattibile con la Tubercolosi (TBC).
Mentre in uno studio medico sentirsi dire che c’è una particolare forma di TBC significa “ho un micobatterio guaribile che mi ha infettato e che adesso curerò”, normalmente questa diagnosi significa, nella percezione comune, “ho una malattia cronica della povertà, legata alla mia scarsa igiene e di cui morirò…”
La differenza tra significato vero e significante indfividuale diventa enorme, e lo stesso può valere per il termine “schizofrenia”.
Il DSM IV e V (documenti di definizione delle diverse malattie psichiatriche, la cui ultima revisione – DSM 5 TR – risale al marzo ’23), continuano a indicare il termine schizofrenia correlato ad una situazione di “sindrome dissociativa”. È un termine che ha ora oltre 100 anni e che molti, appunto, ritengono inadatto.
Una delle possibili immagini più classiche del comportamento schizofrenico può essere quella del personaggio che sentendosi Napoleone parla ai clienti del negozio in cui è entrato invitandoli a prendere le armi e a muoversi verso Waterloo… Dissociato dalla realtà con percezioni diverse dall’usuale su ciò che lo circonda, e questo esempio è solo una immagine delle mille diverse possibilità di espressione.
In Giappone, il termine schizofrenia è stato in parte sostituito con “disturbo di integrazione”. Ad Hong Kong (Cina) con “disturbo del pensiero e della percezione”. Nel mondo anglofono (USA e UK) sono state accettate espressioni come “sindrome dello spettro psicotico”, “sindrome della alterata percezione” e “disturbo della integrazione neuro emozionale”.
Non so certo quale sia la definizione migliore, anche perché è diversa la percezione da parte del malato (che spesso è in fasi mentali differenti) e da parte del medico.
Importante è che questo dibattito prosegua fino a che si possa essere certi che un care-giver e un infermiere di un Pronto Soccorso sappiano che affrontando una persona con “disturbi di integrazione” possano trovarlo in una fase problematica o meno adattando nel modo migliore il proprio comportamento alla possibile fase in cui si trova il paziente.
Una persona con un disturbo della percezione (termine che si vorrebbe usare in Korea) non può essere confuso dall’infermiere del PS con una persona che abbia un problema di udito, per trovarsi poi di fronte ad un soggetto catatonico immobile o a una persona che sta invece esprimendo in modo violento la sua reazione alla rabbia.
È un dibattito in corso che forse, più della soluzione in sé, richiama al fatto di mantenere rispetto anche nelle diagnosi, qualunque esse siano, e nel riferimento alle stesse, sia quando si parla coi colleghi, sia e soprattutto quando si parla con persone che soffrono.