I segnali del digiuno breve: le 15 ore che riducono infiammazione e massa grassa
Una ricerca importante, pubblicata su Cell Metabolism da un gruppo di ricercatori della Divisione di Gastroenterologia della University of California, La Jolla, consente di affermare che nei topi (che in genere hanno risposte metaboliche e immunitarie molto simili agli umani) l’uso ritmato di una breve fase di digiuno può ridurre l’infiammazione, stimolare il dimagrimento (perdita di massa grassa) e creare una codifica del metabolismo che può durare nel tempo.
La scelta dei segnali appropriati da inviare all’organismo attraverso il cibo potrebbe diventare uno degli strumenti più efficaci per contrastare sul piano clinico l’epidemia di obesità che sta affliggendo i paesi industrializzati.
Molti di questi segnali sono già noti (importanza della prima colazione, bilanciamento tra carboidrati e proteine in ogni pasto, masticazione e così via) e la loro attivazione all’interno di una visione più allargata, che tenga conto del tempo e della sede in cui agiscono i “messaggeri”, può renderli ancora più potenti.
È ovvio che questa ricerca, che documenta in modo rigoroso gli effetti della nutrizione e del digiuno breve su tutti i piani possibili (dalla modifica della espressione genica, alla variazione delle citochine infiammatorie e delle adipochine, alla variazione del microbioma intestinale), fa per ora riferimento ad una specie di mammiferi che è diversa dall’uomo, ma si può dire che negli anni passati, la maggior parte delle ricerche studiate sui topi ha consentito di trasferire molto spesso i risultati sull’essere umano (Chaix A et al, Cell Metab. 2014 Dec 2;20(6):991-1005. doi: 10.1016/j.cmet.2014.11.001).
In un caso o nell’altro, lo studio dei segnali positivi indotti dal digiuno breve (intorno alle 15 ore) e non certo dal digiuno protratto (che genera sempre effetti compensativi ingrassanti) raggiunge una valenza di documentazione scientifica di altissimo spessore e obbliga chiunque ne voglia discutere a confrontarsi non più su illazioni, ma su dati reali.
Nella organizzazione degli esperimenti sono state ricreate condizioni di nutrizione e di digiuno diverse, partendo sia da soggetti già obesi sia da soggetti magri.
Sono state utilizzate diete predefinite (quelle classiche), diete ad alto contenuto di grassi, diete ad alto contenuto di zucchero o di fruttosio, e si sono impostati dei momenti di assunzione alimentare “time restricted”, in cui cioè fosse possibile mangiare solo in alcune ore del periodo di usuale attività, che per il topo è durante la notte, mentre per l’uomo, al contrario, è durante il giorno.
Sono state valutate sia assunzioni alimentari “ad libitum” (senza alcun limite, se non quello della fame) sia normocaloriche controllate (quelle usuali per mantenere i partecipanti all’esperimento in buona salute).
Sono stati studiati periodi di assunzione alimentare di 9 ore (con 15 di digiuno breve seguente), di 12 ore (con equivalente fase di digiuno successivo) e di 15 ore (con 9 ore di “short fasting” seguente); in media il digiuno breve di 15 ore è risultato il più efficace, quello di 12 ha avuto risultati intermedi, mentre quello di 9 non ha mai raggiunto una significatività di risultati.
Questi schemi sono stati applicati a periodi lunghi di alimentazione con controlli seriati e incrociati molto precisi.
I diversi esperimenti hanno consentito di definire con alta significatività statistica diversità sostanziali tra i soggetti con assunzione alimentare libera, ristretta però a sole 9 ore durante la fase di attività/veglia (con seguente digiuno breve di 15 ore), rispetto ai controlli che potevano mangiare durante le 24 ore.
Il “digiuno breve” induce quindi gli effetti seguenti:
- Riduce l’accumulo di massa grassa dovuto a diete obesogeniche (modo scientifico per dire che fa dimagrire anche i già grassi e non si limita a non fare ingrassare i magri).
- Protegge dallo sviluppo di steatosi epatica indotta dall’alimentazione con riduzione del livello di transaminasi.
- Riduce l’infiammazione associata all’aumento di massa grassa (con particolare riferimento alla riduzione di citochine quali il TNF-alfa e l’IL1-beta), controllando così i segnali di pericolo (come quelli indotti dal BAFF) che possono indurre l’organismo ad un accumulo di grasso di deposito.
- Migliora la tolleranza al glucosio e riduce la resistenza insulinica; in particolare riporta alla normalità l’intolleranza al glucosio indotta da dieta obesogenica (diventando possibile strumento di lavoro anche nel diabete).
- Imprime al soggetto (tramite attivazione genica documentata) una memoria metabolica che non viene alterata da due giorni di alimentazione libera (che potrebbe corrispondere al periodo del weekend). Questo significa che mentre la ripresa di un’alimentazione libera prolungata riporta l’organismo verso l’accumulo di grasso, l’attivazione metabolica ottenuta dalla assunzione di cibo, libera ma ristretta nel tempo, si mantiene anche se vengono effettuati due giorni di dieta libera prima di riprendere lo schema proposto (facile pensare al week-end, nella trasposizione umana).
Da questi aspetti, che sono francamente solo alcuni di quelli documentati dal lavoro di Chaix, deriva che un atteggiamento alimentare che mantenga l’introduzione di cibo solo nelle 9 ore di attività può essere responsabile di una azione globale nei confronti delle numerose problematiche metaboliche che affliggono oggi il mondo industrializzato.
Un’eventuale applicazione clinica di questo tipo di scelta va modulata con attenzione, ma consente di poter pensare ad uno spunto innovativo di trattamento nutrizionale rispetto a quanto fino ad oggi conosciuto.
Interessantissimo in questa direzione anche il lavoro di Hatori, da poco pubblicato su Methods in Enzymology, che spiega che la conoscenza dei ritmi circadiani e dei loro effetti sul metabolismo, sul genoma, sul microbioma e sulla attività enzimatica, sta arrivando solo ora ad una conoscenza scientifica, e che questo recentissimo passo apre nuove strade di comprensione e di innovazione per il futuro.
L’autore di quest’ultimo lavoro dimostra che di fronte al totale scombussolamento ormonale e metabolico indotto dalla assunzione libera di diete obesogeniche ad alto contenuto di grasso, l’impostazione di un periodo di dieta “time restricted”, che indica cioè l’assunzione alimentare solo nelle ore di attività e richiede un digiuno breve nelle ore seguenti, facilita il ripristino della primitiva struttura metabolica e consente di prevenire l’obesità e numerose patologie metaboliche, perfino in caso sia mantenuta una assunzione alimentare scorretta (Hatori M et al, Methods Enzymol. 2015;552:145-61. doi: 10.1016/bs.mie.2014.10.027. Epub 2014 Dec 27).
Da anni, nel nostro centro di Milano, applichiamo con successo alcuni di questi spunti alimentari all’interno di un programma terapeutico specifico, sempre individualizzato, che tenga conto di un’educazione alimentare di base fondamentale.
Tutti quelli che lavorano sui segnali finora conosciuti mettono già in pratica qualcosa di molto simile. Le indicazioni usuali sono per una prima colazione molto ricca, un pranzo medio e una cena molto leggera. Se al posto della cena leggera, semplicemente si “saltasse” la cena, si metterebbe in atto esattamente quello che il digiuno breve richiede, raggiungendo le 15-16 ore di digiuno prima di rifare la prima colazione del mattino.
Si tratterebbe di perfezionare, su base scientifica, qualcosa di molto simile che già viene fatto nella pratica di molti nutrizionisti che usano i segnali del cibo per modificare il metabolismo. Con uno spunto reale di innovazione che va nella stessa direzione.
Il rapporto con il tempo, la conoscenza della sede di azione di alcune proteine e una visione allargata, globale, di quello che accade aiuta a capire.
In un precedente articolo su FSP27 abbiamo descritto l’azione di questa proteina che è da molti conosciuta come lipogenica se ne leggiamo i suoi effetti sul fegato (da sempre abituato a ricevere i grassi), ma lipolitica sul tessuto adiposo (dove al paziente e al nutrizionista interessa la mobilizzazione del grasso) nelle prime 15 ore di digiuno breve.
FSP27 è coinvolta nella formazione delle gocce lipidiche nelle cellule ed è a tutti gli effetti un vettore per i grassi senza determinarne di per sé l’accumulo o la mobilizzazione. Questa proteina di segnale semplicemente “obbedisce” al set metabolico della cellula in relazione al momento e al tipo cellulare.
Chi non ha approfondito a sufficienza questi argomenti si limita a considerare l’FSP27 solo rispetto al controllo (downregolazione) della via di utilizzazione dei lipidi.
La riduzione del consumo immediato di grassi è in relazione al fatto che la cellula è in una fase di ridefinizione del destino metabolico della propria energia di riserva e ne blocca per qualche ora un consumo non regolato.
Ad esempio, nelle primi fasi del digiuno il tessuto adiposo sfrutta l’azione di FSP27 per mobilizzare i grassi di riserva che raggiungeranno tutti i tessuti dell’organismo e in primis i muscoli come supporto energetico.
Le cellule che esprimono FSP27 non sono quindi quelle in cui effettivamente verranno bruciati i grassi, ma piuttosto quelle che danno inizio al processo di dimagrimento descritto nei lavori di Chaix.
Bisogna sapere leggere come il tempo e la sede di attività di una proteina sono correlati con l’effetto che vogliamo ottenere.
Nel lavoro di Vilà-Brau su FSP27 viene ben descritto questo effetto paradossale, esattamente come nel lavoro di Chaix descritto in questo articolo si segnala che il tempo, nuova importante variabile, determina l’effetto paradosso di una azione lipogenica, che contemporaneamente è bilancita dall’aumento della mobilizzazione dei grassi.
Chi vuole capire che qualcosa sta cambiando nell’interpretazione del metabolismo deve interpretare il tempo di azione di una sostanza. Non solo una caloria non è più una caloria, ma una adipochina non è più una adipochina… A seconda di quando e dove viene espressa.
Possiamo dire che per dimagrire serve “mangiare nelle ore di attività” o “digiunare per 15 ore” dopo avere mangiato in abbondanza, ma l’effetto è esattamente lo stesso, e il periodo di tempo previsto è uguale.
Probabilmente si dovrà fare un passo ulteriore nella lettura evoluzionistica del rapporto con il cibo, per arrivare a comprendere sempre di più quali segnali sono i più efficaci e utili per la salute dell’organismo, per trasportare in ambito clinico le conoscenze sperimentali.
Questo non signfica che tutti debbano seguire questo tipo di protocollo, ma che la sua conoscenza rappresenta un possibile strumento efficace e innovativo da applicare oggi in tutti i pazienti in cui serva accentuazione dell’effetto lipolitico.
Di certo si apre un periodo nuovo, dialettico e interessante, di valutazioni innnovative e di crescita di conoscenza. Le stesse che rendono bella e attraente la ricerca continua e il lavoro quotidiano su cui ci applichiamo.