Malattie del cuore: è più pericolosa l’infiammazione del colesterolo
Ricercatori statunitensi di New York, Boston e Cleveland hanno analizzato l’efficacia della riduzione del colesterolo cattivo (LDL, quello per cui oggi si danno le statine) mentre l’infiammazione dell’organismo restava elevata.
Nella revisione dei lavori effettuata dal gruppo di ricerca e pubblicata su Lancet nel marzo 2023 erano coinvolte più di 30.000 persone, in cura con statine, delle quali sono stati studiati i livelli di infiammazione.
L’infiammazione è stata studiata in modo a-specifico, basandosi sulla Proteina C reattiva (CRP) ma misurandola secono un criterio di continuità. Non quindi “sei infiammato o non sei infiammato” ma leggendone i valori di fondo come potenzialmente interferenti sulla salute cardiovascolare.
Ricordo che in un mio articolo del 2005 “È l’infiammazione e non il colesterolo il vero obiettivo delle statine” segnalavo già questo aspetto.
Le statine possono avere una funzione antinfiammatoria, ma bisogna dar loro una mano attraverso l’alimentazione, oppure, agire prima contro l’infiammazione e poi decidere se le statine servano ancora o meno (come spesso facciamo per le persone che seguono i nostri percorsi terapeutici.
Dalla ricerca pubblicata su Lancet emerge che la persistenza dell’infiammazione era associata con alta significatività agli accidenti cardiovascolari, alla mortalità cardiaca e alla mortalità da tutte le cause, mentre la relazione coi livelli di colesterolo LDL aveva scarso significato clinico.
Si tratta di una riscoperta di fortissimo impatto perché ripropone quanto già da tempo segnalato in letteratura. Non serve ostinarsi ad abbassare il colesterolo cattivo in modo eccessivo. O almeno, serve se si lavora efficacemente anche con la riduzione dell’infiammazione.
È anche necessario ricordare che l’innalzamento dei livelli di colesterolo, nella maggior parte dei casi non dipende dalla assunzione di grassi o di colesterolo perché a parte il caso della ipercolesterolemia familiare l’innalzamento dei livelli è molto più correlato agli zuccheri o all’eccesso di carboidrati alimentari, come spiegato nell’articolo “Colesterolo, zuccheri e statine: riflessioni per l’uso”.
In particolare, già nel 2014 un lavoro sviluppato da ricercatori britannici (Università di Warwick) e svedesi (Università di Linköping), pubblicato su Nutrition & Diabetes, aveva evidenziato che la glicazione (fenomeno dovuto appunto a un eccesso individuale di glucosio, fruttosio o alcol) contribuisce a trasformare il colesterolo buono (HDL) in colesterolo cattivo (LDL) determinando cioè un aumento del rischio cardiovascolare.
Questo può spiegare perché l’aumento del Metilgliossale (che si misura con il Glyco Test o con il test PerMè) è indice di quella variabilità glicemica correlata con l’aumento di mortalità da tutte le cause, e quella cardiovascolare è sicuramente la più rappresentata.
Quindi, anche l’uso del farmaco deve essere accompagnato dalla modifica personalizzata degli stili di vita e della alimentazione perché il risultato farmacologico sia reale e non venga disperso.
Per questo, nel centro SMA in cui lavoro, quando affrontiamo il sovrappeso, la ipercolesterolemia e la sindrome metabolica attraverso specifici percorsi terapeutici, dedichiamo sempre una attenzione personalizzata al quadro infiammatorio dovuto agli alimenti e alla misura del BAFF, del Metilgliossale e della Albumina glicata (attraverso i test di GEK Lab) perché la risposta clinica sia anche quella della perdita di massa grassa inutile, se necessaria, ma soprattutto quello del controllo dell’infiammazione, della riattivazione del metabolismo e della riconquista del benessere personale.