Alzheimer e cibi. Come aiutarsi a ricordare
Sin dal 2001 si è capito che c’è una relazione diretta tra lo sviluppo della malattia di Alzheimer e l’alimentazione. In quegli anni sembrava un’eresia perché i rapporti tra alimentazione e malattie sembravano relegato alle sole riviste femminili o al calendario di Frate Indovino.
Anche nel 2008, quando Eurosalus ha pubblicato l’articolo “E se l’Alzheimer dipendesse da quello che mangiamo?” sono piovute numerose critiche legate alla supposta indeterminatezza delle valutazioni nutrizionali.
È importante pensare che queste affermazioni sono state tacciate di “eresia” nonostante i lavori scientifici che lo dimostravano fossero stati pubblicati sul JAMA già nel 2001 (e parliamo di una delle 4 riviste mediche più autorevoli al mondo.
Oggi che il declino cognitivo è misurabile e che esistono biomarcatori perfettamente misurabili ed a disposizione di tutti come il Metilgliossale, è stata ben documentata la relazione tra glicazione, metilgliossale, proteina Tau181 e deposito di sostanza amiloide nel cervello di chi soffre di Alzheimer.
Significa, come spiegato nell’articolo “Alzheimer, declino cognitivo e metilgliossale”, che valutando i livelli di glicazione individuali, cioè quanti zuccheri o carboidrati semplici in eccesso sui propri bisogni vengono assunti ogni giorno, si può capire quale sia il proprio possibile destino e mettere in pratica poche ma semplici decisioni per ritornare verso la normalità.
Riprendo però il lavoro di JAMA del 2001 per capire come i ricercatori statunitensi del Dipartimento di Psichiatria dell’Indiana abbiano agito per trovare questa associazione.
Sono stati studiati due gruppi di persone con radici genetiche molto simili, che si nutrono però in modo radicalmente diverso. Alcune zone dell’Indiana (ad esempio alcuni quartieri di Indianapolis) non si sono “mischiate” con i locali e la loro genetica è ancora quella della popolazione di origine nigeriana (parliamo di “tratta degli schiavi” con soggetti storicamente provenienti da una determinata area della Nigeria).
Il confronto è stato fatto tra questo gruppo di Indianapolis (con la classica alimentazione occidentale-statunitense) e un gruppo di persone di colore, abitanti a Ibadan (Nigeria), alimentato con una dieta prevalentemente a base di verdure, frutta, cassava, olio di palma e pesce.
Ne è emerso un risultato strabiliante, evidenziando che l’incidenza dell’Alzheimer e della demenza senile nel gruppo statunitense è circa tre volte maggiore che nel gruppo con alimentazione tradizionale nigeriana.
Nel corso di 5 anni il deterioramento mentale progressivo si è presentato nel 3,25% degli abitanti di Indianapolis, e solo nell’1,35% dei Nigeriani.
Come sopra anticipato, la conferma dell’importanza dell’alimentazione e della glicazione nella cura e nella prevenzione delle malattie neurodegenerative è arrivata soprattutto negli ultimi anni, anche se già da molti anni un numero elevato di ricercatori definiva la malattia di Alzheimer “Diabete di tipo 3”, evidenziando cioè il ruolo importantissimo degli zuccheri (di tutti gli zuccheri) nella sua comparsa e nella sua evoluzione.
Nel 2020, infatti, una ricerca pubblicata sull’International Journal of Molecular Sciences ha precisato che nella malattia di Alzheimer la formazione di sostanza amiloidea (Beta amiloide) e la sua rimozione dal tessuto cerebrale sono entrambi processi correlati con la resistenza insulinica e che la alterata regolazione degli zuccheri porta sia ad una maggiore produzione di beta amiloide sia ad una riduzione della sua rimozione dal cervello.
L’ultimo pezzettino del puzzle, però, è arrivato con la pubblicazione, nel marzo 2022 sul Journal of Alzheimer’s Disease, di una ricerca effettuata da studiosi di differenti Università statunitensi, che ha dimostrato che la proteina Tau 181 (una di quelle attivate e fosforilate dal metilgliossale) è strettamente correlata alla deposizione di sostanza amiloide nel cervello, causa effettiva del declino cognitivo e della alterazione dei processi mnemonici.
Le conoscenze su questo ambito sono state stimolate anche dalla pandemia da Covid19.
Si è scoperto che l’ingresso nelle cellule nervose (neuroinvasione) e la lesione distruttiva di molti neuroni (neurodegenerazione) erano legati anche alla attivazione dei processi di glicazione cioè alla presenza di sostanze zuccherine che rendono possibile l’azione del virus.
Infine, l’infiammazione da zuccheri è correlata anche alla mortalità per tutte le cause in quanto influenza la variabilità glicemica.
Riassumendo, quindi, chi mangia un eccesso individuale di zuccheri (tra cui vanno compresi anche quelli nascosti e invisibili) e aumenta la quantità di metilgliossale circolante nel proprio organismo ha prodotto in realtà una delle sostanze più ossidanti esistenti nell’uomo, che a sua volta attiva la proteina Tau 181 che è un indice precoce della successiva deposizione di sostanza amiloide.
La presenza di metilgliossale (misurabile oggi attraverso il test PerMè di GEK Lab) è di fatto una sorta di segnale preliminare di un successivo deposito di amiloide e di sviluppo di Alzheimer.
Significa che le ipotesi statistiche ed epidemiologiche formulate nel recente passato sono oggi completamente confermate. Si è capita finalmente non solo la relazione statistica tra zuccheri e demenza ma anche la modalità specifica con cui si arriva alla deposizione di amiloide e all’Alzheimer, facendo quindi passi giganteschi verso la possibile prevenzione di questo tipo di malattie.
Conoscere il proprio livello di metilgliossale e capire in anticipo se il proprio organismo ha elevati livelli di glicazione, consente a ogni persona di attivare in tempo una giusta prevenzione della evoluzione verso la degenerazione neuronale mettendo in atto soluzioni alimentari semplici, individualizzate e percorribili senza assurde rinunce totali.