L’ABC della pazienza (ovvero l’arte di amare, nonostante tutto, il proprio medico) – A
Nell’arte della pazienza la A viene per prima. Non soltanto in ordine alfabetico, come in qualsiasi altra arte, ma anche e soprattutto in ordine cronologico. Nella memoria di ogni paziente è questo il primo ricordo, il primo passo ed eventualmente il primo trauma della sua relazione col medico: un oggetto di metallo, freddo, sulla lingua e l’esortazione, calda, paterna, del pediatra: “Fai bene A”.
Un tempo i bambini erano considerati pregiudizialmente sani e si chiamava il medico solo quando avevano la febbre: perciò la visita pediatrica era per lo più domiciliare e l’elemento freddo di questa contraddittoria esperienza termica era rappresentato da un cucchiaio. Oggi la rarefazione delle visite domiciliari e la tendenza a introdurre la tecnologia anche nei gesti più banali ha spazzato via il cucchiaio da questa relazione, cancellando dalla sua complessa simbologia uno degli insegnamenti più interessanti: il fortissimo legame che tiene avvinte la medicina alla cucina e la malattia all’alimentazione. Restano però vivi tutti gli altri.
Innanzitutto si potrà osservare che “Fai bene A” è un consiglio molto giudizioso, specie se rivolto ad un bambino all’esordio nella sua lunga carriera di paziente. Si comincia da lì, dall’A, e l’ammonimento a farla bene disegna implicitamente sullo sfondo la natura sapienziale del rito: se ci viene detto di farla bene, questa A, è perché evidentemente esiste la possibilità di farla così così, mediocremente, male o malissimo, di non saperla fare del tutto ed eventualmente di non imparare mai a farla, proprio come la H maiuscola, con tutti quei riccioli e quelle zampe, quelle aste verticali e orizzontali che si intrecciano con paradossale prolissità per dare voce a una lettera muta. Di norma la sappiamo fare tutti abbastanza bene, l’A, e ne riceviamo in premio un “Bravo!” che ci rassicura: abbiamo portato il primo mattone all’immenso edificio della nostra arte, la pazienza.
Possono però darsi casi sciagurati in cui la stimolazione dell’epiglottide o del velo pendulo provoca spasmi, rantoli, colpi di tosse o addirittura conati di vomito, con effetti talora spettacolari e – di conseguenza – mai più dimenticabili.
Quando si fallisce così vergognosamente la prima prova, gli auspici sono infausti. Nella mente del candidato paziente si formerà il convincimento di non essere in grado di sopportare la sofferenza cui l’etimologia dell’arte lo condanna. In quella del medico prenderà corpo la persuasione simmetrica di trovarsi di fronte a un bambino che non diventerà mai un buon paziente: oltre a non saper soffrire a sufficienza, non sa tenere a freno la lingua.
Perché naturalmente è questo l’insegnamento più luminoso, terribile e fuorviante che la simbologia del gesto ci impartisce: la lingua del paziente deve stare ferma: ostacola l’osservazione e quindi – è da presumersi – la diagnosi, la terapia e la guarigione. In altre parole è d’impaccio all’esercizio della professione medica.
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