Passo veloce e mano forte contro demenza e ictus
Camminare più velocemente indica una minore propensione allo sviluppo di demenza con il crescere dell’età. Essere in grado di stringere la mano con più forza sembra invece preservare da ictus nelle stesse circostanze. Lo studio condotto da Erica C. Camargo, medico con dottorato in ricerca, presso il Boston Medical Centre (centro medico di Boston), verrà presentato in aprile all’incontro annuale dell’American Academy of Neurology (AAN).
Lo studio è oggi ancora in attesa di essere rivisto, com’è d’uso, da una commissione di “pari” che ne verifichi la funzionalità. Duemilaquattrocento volontari sani e con età media di 62 anni sarebbero stati reclutati e seguiti per 11 anni. Oltre che test di tipo cognitivo e scansioni cerebrali, ad essi sarebbero state valutate la velocità del passo e la forza con cui la mano era in grado di stringere un oggetto. Negli undici anni della durata dello studio 34 persone hanno sviluppato diverse forme di demenza, Morbo di Alzheimer incluso, e 70 sono state soggette ad ictus.
Il risultato è quantomeno interessante: chi camminava più velocemente rispetto alla media aveva un rischio 1,5 volte minore di sviluppare demenza, e a fine periodo di osservazione aveva mediamente un volume cerebrale totale maggiore e un risultato migliore su test di memoria, uso linguistico e di tipo decisionale, rispetto a chi era abituato a tenere un’andatura più lenta. D’altra parte, l’analisi sulla stretta di mano ha rivelato in chi avesse più di 65 anni un rischio il 42% minore di incorrere in ictus anche di piccola o media intensità (attacchi ischemici transienti) in chi aveva una presa più salda a inizio studio. Inoltre, i soggetti con la stretta più forte, a fine studio, presentavano mediamente un volume cerebrale maggiore e avevano ottenuto risultati migliori su test relativi alla capacità di pensiero e di memoria.
La dottoressa Camargo ha dichiarato che “ulteriori ricerche sono necessarie per capire il motivo per cui ciò accada”. La dottoressa ha ipotizzato il ruolo della malattia nel provocare alterazioni della forza nello stadio preclinico. Risulta tuttavia più probabile che le stesse variabili, che influenzano l’instaurarsi o meno di patologie quali quelle analizzate, contassero anche sulll’andamento della camminata o sulla forza complessiva (stretta della mano).
Interessante in tal senso il ruolo di alimentazione, gestione dell’infiammazione (ad esempio infiammazione da cibo), e dell’equilibrio psicofisico nei risultati di atleti di ultramaratona. Tali atleti percorrono distanze molto lunghe (tra le gare più celebri per la categoria ci sono le “24 ore” o le “100 km”), con la necessità di ridurre al minimo il dispendio energetico della corsa (esattamente come avviene nella camminata al passo usuale). Come si ricorda in questa intervista sull’ultramaratona, sulla lunga distanza la componente di origine genetica tende a venir meno lasciando invece spazio alla gestione personale della propria forza fisica durante la performance, ma anche durante la preparazione alla gara stessa. Le stesse variabili che permettono all’atleta di avere una risposta migliore durante la gara, sarebbero possibilmente implicate nella gestione della forza nella vita di tutti i giorni (e quindi nella velocità della camminata e nella forza della stretta di mano).
Che attività fisica, nutrizione e controllo dell’infiammazione abbiano un ruolo nell’insorgenza di tal tipo di problematica (demenza, Alzheimer o ictus che sia) è già stato per altro ampliamente verificato negli anni passati. Lo studio propone forse una interessante modalità di controllo della propria forma fisica e della propria salute. Qualora i risultati proposti si rivelassero veri, la propria forza messa nella presa della mano, o la propria velocità nella camminata normale potrebbero essere sintomi valutabili anche dal singolo che potrà a quel punto agirci in maniera diretta e funzionale, almeno con la possibilità di informarsi presso il proprio metodo di base.