Mangiare su misura per evitare i danni dovuti al fruttosio
Il fruttosio, quando è introdotto nell’organismo in grandi quantità e fuori dal suo contesto naturale (la frutta fresca con la sua fibra), può determinare danni anche severi.
Negli anni passati si sono accumulati molti sospetti sulla sua azione, ma dal 2017, anno in cui è stata precisata l’interferenza della glicazione sulle reazioni infiammatorie, si parla invece di acquisizioni scientifiche.
Un gradevolissimo articolo pubblicato il 22 Giugno 2020 su Nature Metabolism ha analizzato la funzione difensiva dell’intestino nel metabolismo del fruttosio (Jang, C., Wada, S., Yang, S. et al. The small intestine shields the liver from fructose-induced steatosis. Nat Metab (2020). https://doi.org/10.1038/s42255-020-0222-9). Attraverso la valutazione del corretto funzionamento dell’intestino, gli autori hanno potuto evidenziare che l’accumulo di grasso dovuto al fruttosio si verifica prevalentemente in particolari condizioni di uso.
Ad esempio si è visto che la stessa quantità di fruttosio è molto più “lipogenica” (determina cioè il deposto di grasso) quando è bevuta piuttosto che mangiata. L’uso continuo di spremute o di estratti a freddo (privi di fibra) facilita l’accumulo di grasso più della assunzione della corrispondente frutta fresca con la sua fibra, per non parlare dei soft drink o di molte bevande dolcificate con fruttosio.
Inoltre assumerne una grande quantità tutta insieme determina un effetto di accumulo di grasso molto più intenso del distribuire la stessa quantità nel tempo (nell’esperimento si parla di 45 minuti). Bere vino a piccoli sorsi in un tempo prolungato, ad esempio, è quindi meno “ingrassante” della dose unica bevuta in breve tempo.
I ricercatori hanno anche spiegato che l’intestino tenue ha un suo limite di funzionamento e se riesce a trasformare il fruttosio in composti non lipogenici questi non provocano danni. Quando la quantità è più elevata viene invece superato il limite che l’intestino è in grado di metabolizzare e il rimanente viene rapidamente avviato al fegato come composto “ingrassante”, gettando le basi per la sindrome metabolica, facilitando la glicazione.
Questo aspetto è di estremo interesse perché consente di vedere il problema non solo dalla parte del fruttosio, ma anche dalla parte dell’intestino. La presenza di colite, ad esempio, può condizionare una alterazione dell’intestino nella capacità di metabolizzare il fruttosio, facilitando quindi il passaggio dello stesso al fegato e l’accumulo di grasso (di solito nei posti sbagliati).
Intestino e alimentazione sono strettamente collegati e i fenomeni di glicazione, oggi finalmente capiti anche per il fruttosio, sono sempre più frequenti e soprattutto trattabili.
Gli autori della ricerca citata, concludono con un invito a usare misura nell’introduzione di fruttosio e a distribuirne l’assunzione nel tempo, usandone piccole dosi. Ricordiamo a questo proposito che con le stesse vie metaboliche vengono utilizzati anche alcol e polioli (eritritolo, xylitolo ecc.) che possono portare allo stesso problema e che meritano quindi lo stesso tipo di attenzione.
Affrontare in modo personalizzato lo studio del sovrappeso, al pari di quello della colite, consente di comprendere finalmente le interazioni tra ogni persona e l’infiammazione correlata agli alimenti o agli zuccheri. È per questo motivo che nel centro SMA di Milano in cui lavoro, insieme allo staff medico e nutrizionale, usiamo da anni percorsi terapeutici personalizzati che partano dallo studio del profilo alimentare personale. In questo senso la recente disponibilità del test PerMè consente valutazioni oggettive che gettano le basi di una alimentazione finalmente rispettosa dei personali equilibri.