Quando l’orticaria non risponde agli antistaminici vanno studiate le citochine correlate al cibo
L’orticaria è una manifestazione di allarme che segnala all’esterno, sulla pelle, qualche squilibrio nel contatto con alimenti, farmaci, inquinanti o sostanze diverse.
In genere la manifestazione tende a guarire spontaneamente e nella memoria di chi ne ha sofferto restano immagini simili a “Mangiando un mango alle Filippine, ho avuto un’orticaria” oppure “Dopo il terzo giorno di antibiotico mi sono riempito di macchie rosse e allora lo abbiamo cambiato”. Un contatto, una reazione di breve durata e la guarigione.
Il problema vero nasce quando la causa non è così evidente e chiara, e soprattutto quando le comuni terapie anti-orticaria, cioè gli antistaminici, non sembrano funzionare. In quel caso, quando le manifestazioni, a dispetto delle cure, si protraggono oltre le 6 settimane, si parla di orticaria cronica.
Il termine inglese di Chronic Spontaneous Urticaria (CSU) ribadisce che la causa non sia determinata, al punto di considerarla “spontanea”, come se non derivasse da nessuna causa conosciuta. In questo gruppo sono comprese anche l’orticaria cronica autoimmune, l’orticaria cronica idiopatica e le orticarie fisiche come il dermografismo e l’orticaria “da sole”.
Se gli antistaminici funzionano, spesso le persone si dimenticano di approfondire il problema e nonostante la ripetizione della uscita di macchie si trattano (spesso anche con automedicazione) con l’assunzione ripetuta di questo tipo di farmaci. Alla nostra osservazione arrivano invece, con frequenza ormai crescente, le persone che dopo vere preso antistaminici di tutti i tipi per più mesi, decidono di approfondirne le possibili cause, che sono invece sempre più dimostrate su base scientifica.
Un gruppo di ricercatori sudcoreani ha pubblicato su Clinical and Translational Allergy, nel luglio 2019, una interessante ricerca sui livelli di PAF (Platelet Activating Factor) che aiutano a prevedere che l’orticaria non risponderà agli antistaminici (Ulambayar B et al, Clin Transl Allergy. 2019 Jul 17;9:33. doi: 10.1186/s13601-019-0275-6. eCollection 2019).
PAF è una delle molecole che da anni nel nostro centro studiamo per definire l’infiammazione correlata al cibo e che si innalza quando un alimento viene assunto in modo eccessivo o ripetitivo. Ne dipende che una valutazione di BAFF e di PAF e del profilo alimentare personale (Test GEK Lab) può consentire di ridurre il PAF attraverso una dieta corretta, e aiutare ogni persona malata di orticaria a recuperare la possibilità di un trattamento farmacologico (spesso gli antistaminici iniziano finalmente a funzionare dopo pochi giorni di dieta) e in molti casi a risolvere il problema.
Ricordiamo che di fronte a una orticaria ricorrente o cronica è sempre bene che un medico possa valutare anche le altre possibili cause del problema (ad esempio l’autoimmunità) per una valutazione completa del disturbo.
Il tema alimentare non si ferma però ai soli alimenti. Ormai è chiaro che le reazioni infiammatorie possono essere correlate ad almeno tre forme diverse di infiammazione e in particolare sta emergendo la necessità di capire come si sviluppino sintomi dovuti alla relazione con il cibo, dovuti a:
- eccesso o ripetizione di un tipo di alimento (che considera BAFF e PAF)
- alterata proporzione tra carboidrati e proteine
- eccesso di zuccheri e glicazione
Già nei mesi scorsi abbiamo segnalato su queste pagine l’importanza degli zuccheri nello stimolo infiammatorio (glucosio, fruttosio, amidi semplici e alcol), ed è utile ricordare che fin dal 2017 è evidente, sul piano scientifico, che il 62% delle reazioni infiammatorie o allergiche di cui non si comprende la causa possono dipendere da un eccesso di zuccheri.
Per questo, di fronte ad una orticaria cronica o che tenda a diventarlo, diventa necessario personalizzare le proprie impostazioni alimentari, capendo come rieducare l’organismo ad una alimentazione che non vada a determinare una risposta infiammatoria, allergica o similalergica.
L’infiammazione da alimenti e da zuccheri può oggi essere misurata per arrivare adi una impostazione terapeutica personalizzata. Test PerMè (che studia insieme l’infiammazione da alimenti e da zuccheri), Recaller 2.0 (BAFF, PAF e Profilo alimentare personale) e GlycoTest (Metilgliossale, Albumina glicata e predisposizione genetica a obesità e diabete) fanno ormai parte di una possibilità diagnostica utilizzabile da chiunque abbia cura della propria salute.
Informazioni più approfondite su questi test si possono trovare sul sito GEK Lab che segnala in modo aggiornato le farmacie italiane e i centri che li effettuano; tale elenco è in costante espansione grazie al progressivo inserimento delle farmacie che effettuano i corsi di aggiornamento necessari. Si tratta di strutture che hanno seguito la formazione specifica per il supporto alla applicazione del GlycoTest e del test PerMé.
I risultati della valutazione del profilo alimentare consentono spesso di ridurre l’uso di altre terapie antistaminiche o cortisoniche e in molti casi di arrivare ad una guarigione completa; questo sottende che in questi casi lo squilibrio alimentare ne era la causa reale, nel rispetto delle ultime ricerche appena descritte.
Alla fine nel nostro centro lavoriamo su queste situazioni in modo multifattoriale, senza disdegnare l’uso transitorio o limitato dei farmaci classici, utilizzando spesso integratori ad azione antinfiammatoria come Ribilla, Oximix, Quercitina, Inositolo, e stimolando però un controllo infiammatorio attraverso la valutazione delle citochine infiammatorie e dei prodotti di glicazione correlati al cibo.
In questo modo si favorisce una dieta varia e completa, in cui nessun alimento è mai vietato, ma il controllo e la consapevolezza, che consentono l’uso degli alimenti fino ad allora mangiati in eccesso in determinati giorni della settimana, per ripristinare il fisiologico rapporto con il cibo.