Artrite reumatoide: quando il vino può fare del bene
Artrite reumatoide e alcol. Un tema di sicuro interesse perché riguarda comunque l’1% della popolazione e perché in riferimento all’uso alcolico questa ricerca va controcorrente rispetto alle polemiche recenti sul fatto che l’alcol sia comunque nocivo, mentre molti lavori, come abbiamo più volte spiegato, danno invece valore al moderato utilizzo dell’alcol.
Insomma, da questo lavoro scientifico emergono buone notizie sul suo consumo.
L’articolo, pubblicato nel giugno 2023 su Arthritis and Rheumatology, arriva a spingersi anche oltre, segnalando addirittura che il miglioramento clinico evidenziabile nell’artrite reumatoide è direttamente proporzionale al consumo alcolico, anche quando non è moderato. Tema critico che discuterò a breve.
È infatti d’obbligo la cautela su questa affermazione, che soprattutto non deve portare chi non beve ad usare alcolici e deve invece aiutare a riflettere sul fatto che in medicina esistono effetti differenti per dosi differenti e che questi effetti devono essere contestualizzati in modo preciso. Dire che l’alcol, in qualsiasi sua forma, è comunque tossico (come da alcuni ricercatori viene segnalato) trascende la realtà dei fatti che è sicuramente più complessa.
Questa ricerca, effettuata da ricercatori del Karolinska Institutet, cioè dell’istituzione svedese che assegna i premi Nobel, dimostrando che chi soffre di artrite reumatoide può avere un vantaggio dall’uso di alcol, si inserisce “a gamba tesa” proprio nelle recenti discussioni sui possibili danni legati alla sua utilizzazione e ne certifica, almeno in questa malattia, dei vantaggi importanti.
Una meta analisi effettuata dal gruppo di ricercatori svedesi, guidati da Lars Alfredsson dell’Istituto di Medicina Ambientale del prestigioso istituto svedese, ha documentato che i non bevitori (cioè gli astemi) avevano una maggiore attività di malattia (dato oggettivo) e una maggiore percezione di dolore (dato soggettivo) rispetto ai malati di AR che utilizzavano alcolici.
Lo stesso valeva per il numero di articolazioni coinvolte e per il numero di punti dolorosi (tender points) oltre che del livello di fatica percepito. Tutte condizioni più elevate negli astemi rispetto a chi utilizzava alcolici.
Ovviamente queste indicazioni (confermate anche dopo un anno dall’inizio dello studio) sono state verificate in persone malate di AR che non avessero altrimenti modificato le proprie abitudini alimentari o il tipo di terapia, in condizioni quindi confrontabili tra loro.
Lo studio va anche oltre, segnalando che i bevitori che avessero smesso di bere modificavano il loro stato peggiorando (ad un anno di distanza) la loro qualità di vita.
Il tema è sicuramente controverso e vale la pena indicare che questa relazione non è la dimostrazione di un rapporto “causa – effetto” ma la lettura di una associazione con elevate caratteristiche di significatività. Poiché l’alcol è anche un farmaco rilassante e detensivo, l’uso di alcol potrebbe giustificare la sua azione attraverso una modulazione dello stato di tensione muscolare associato alla malattia. Non quindi una azione sulle cause della malattia ma sui suoi effetti, come se agisse come un farmaco di supporto.
Di certo però il ricercatore e lo scienziato devono analizzare i numeri e non le percezioni, e questi sono numeri che obbligano a riflettere sul loro significato nonostante le voci contrarie (ad esempio questo articolo su Healio) che riportano schemi di rifiuto assoluto di qualsiasi possibile beneficio dell’alcol in qualsiasi condizione.
Abbiamo già discusso in altri articoli della “curva a J” legata all’uso dell’alcol e abbiamo documentato, grazie ad una ricerca riportata nell’articolo “Alcol e cancro del pancreas: è lo zucchero che fa la differenza” che alcuni degli effetti tossici e carcinogeni dell’alcol possono essere indotti dalla glicazione presente in contemporanea. Come a dire che l’alcol, in una persona sana che non assume un eccesso di zuccheri, potrebbe anche dare benefici mentre chi già utilizza dolcificanti, dolci in abbondanza, carboidrati raffinati, cibi ultra processati e fruttosio e glucosio in quantità può riceverne un danno.
L’uso dell’alcol, come di qualsiasi sostanza che può avere anche effetti tossici, deve essere sempre cauto, ma l’evidenza dei numeri dice che non c’è ancora una certezza sui suoi effetti in una direzione o nell’altra o che questi effetti non sono solo in una direzione specifica.
La mia lettura scientifica dice che l’alcol in eccesso ha una azione tossica da proscrivere, che chi non beve non deve iniziare a farlo ma che il bere moderato (e di qualità) in molte situazioni ha dei vantaggi che la scienza documenta e di cui si deve tenere conto per non chiudersi in un proibizionismo acritico e dannoso.
Molto più evidente, come effetto dell’alcol, è quello sul metabolismo, che può portare alla “pancia a barilotto” se mal gestito.
Per questo continuiamo a battere sul concetto di personalizzazione della medicina e delle scelte terapeutiche e la glicazione, su base scientifica, sta sempre più diventando uno strumento di valutazione medica e di impostazione terapeutica di alto valore e di concreta efficacia, anche per capire individualmente gli effetti dell’alcol su ogni singolo organismo.
Gli effetti della glicazione “nascosta” sono perfettamente conoscibili, misurabili e controllabili in modo umano e personalizzato (test GEK Lab). Non serve eliminare gli zuccheri ma semplicemente conoscere come il proprio organismo risponde e magari aiutarlo con l’attività fisica, con un po’ di Cromo e di Manganese in più (Glucontrol base, ad esempio) e con uno stile di vita un po’ più sano, di cui individualmente, può fare parte anche il buon vino, usato con moderazione nei momenti giusti.
Per questo motivo, nel centro SMA in cui lavoro studiamo in modo personalizzato l’alimentazione (come sempre facciamo in tutti i percorsi terapeutici per le diverse malattie) e in tutte le condizioni in cui siano presenti infiammazioni e alterazioni del metabolismo. La possibilità che una condizione di glicazione elevata o di infiammazione alimentare misconosciuta siano alla base della malattia è ormai evidente, documentata e applicabile in ambito clinico per definire, su base personalizzata, le scelte alimentari più adatte.